La lunga notte dell’esule Ignazio

Il Messaggero Abruzzo (21 maggio 1987)

di Antonio Gasbarrini

Croce, D’Annunzio, Silone: un’intensa giornata di studio e dibattito dedicata – nella “versione aggiornata” di “Abruzzo à Neuchatel” – a nomi illustri che tanto profondamente hanno inciso nel pensiero, nell’arte e nella scultura italiana di questo secolo.

L’auspicabile pubblicazione degli atti dovrebbe chiarire il filo conduttore di un convegno non riconducibile facilmente ad unità, così radicalmente diverse sono le implicazioni ideologiche, filosofiche ed artistiche di scritti, ed opere collocabili su piani alquanto distanti. A nostro modo di vedere, comunque, spetta alla solare figura dell’esule Ignazio Silone il perno centrale attorno a cui, ci auguriamo, andranno a ruotare le previste relazioni. Se ciò non dovesse avvenire, sarà persa un’ulteriore occasione per dare il dovuto rilievo agli scritti di uno dei più originali narratori del nostro tempo.

Una originalità da cercare nella sostanza, nello spessore delle parole, giammai nella vacuità contingente della forma. La testimonianza di una drammatica vicenda umana e di un’altrettanto tesa esperienza letteraria aveva trovato nella civile “Terra svizzera”, le opportunità per dispiegarsi liberamente. Da questa patria spirituale, le ultime tracce fisiche dello scrittore abruzzese sono tornate, il 27 agosto 1978, sotto forma di cenere sigillata in un’urna d’alabastro, incassata poi tra i ruderi dell’evocato campanile di S. Berardo, a Pescina. Ripercorriamo, in flashback, i punti salienti di una straordinaria avventura.

Cominciamo dalle ultime parole sgranate dalla voce di Silone “Maintenant c’est fini. Tout est fini. Je meurs.” (“Adesso è finita. Tutto è finito. Muoio”).Sono le 18.30 del 18 agosto 1978. Silone è ricoverato da circa cinque mesi nella Clinique Generale di Ginevra per curare una grave malattia renale e polmonare, con ripercussioni cerebrali. Dopo aver pronunciato, in francese, le tre laconiche frasi dirette alla compagna Darina, “accostò le mani alle tempie e gemette quattro volte “Ohh-Ohh-Ohh-Ohh.” Quindi chiuse gli occhi e si afflosciò sulla poltrona” (Darina Silone): Il coma dura fino alle 4.15 del 22 agosto; poi l’ultimo battito scandisce la fine, mentre la battaglia letteraria di “Severina” sta per essere portata a compimento. Due citazioni (trovate tra gli appunti stese per il romanzo), del poeta Rainer Maria Rikle (“O, Herr, gib jedem seinen eigene Tod”, “Signore concedi ad ognuno la propria morte”) e di Benedetto Croce (“Quando verrà che almeno ci sorprenda al lavoro”), sono rivelatrici dello stato d’animo di chi ha già chiuso i conti con la vita. Una vita germogliata, artisticamente, tra le nevi ed i monti di Davos. Siamo agli inizi del ’30.

“Poiché mi trovavo lì, solo, sconosciuto e con falso nome per sfuggire alle ricerche che la polizia fascista, scrivere divenne per me l’unico mezzo di difesa contro la tristezza e l’abbandono, e poiché il tempo probabile che mi restava, secondo l’opinione dei medici, non pareva lungo, scrivendo in fretta, con indicibile affanno ed ansia, per fabbricarmi alla meglio quel villaggio (Fontamara n.d.r.) in cui mettevo la quintessenza di me e della mia contrada nativa, in modo di finire almeno tra i miei”. (I. Silone).

La rottura definitiva con il gruppo dirigente del PCd’I a seguito della svolta staliniana del ’29, l’epilogo dell’utopia rivoluzionaria di un combattente ferito “moralmente” dagli stessi compagni, tubercolosi e difficoltà economiche e pratiche di ogni tipo (“Fontamara sarebbe già finito se una parte del manoscritto e delle note non fosse rimasta sequestrata a Davos, presso la prigione alla quale devo quattrini”) fiaccheranno il fisico, ma tempreranno d’argento lo spirito. In Svizzera Secondo Tranquilli, alias compagno Pasquini, sull’”orlo del suicidio” (sono ancora parole di Silone), incontra, con la letteratura, una insperata palingenesi.

Fino a quel momento l’arma della penna, ben appuntita, è stata rivolta, con una serie di saggi pubblicati sulla rivista clandestina del PCd’I, “Lo Stato Operaio”, contro le menzogne della farsa fascista. Ma il “gergo” politico risulterà limitante, in quanto “questo romanzo (Fontamara) si distingue dagli altri  miei lavori solo nella forma letteraria, e lo scrivo perché negli articoli politici non si può dire tutto: vi è sempre una parte della realtà che sfugge” (da una lettera scritta ad un compagno). A Zurigo, nel ’33, Fontamara vede la prima edizione svizzera, in lingua tedesca, “a spese dell’autore” e sostenuta da 800 sottoscrizioni.

Ben presto i “Cafoni” del Fucino faranno conoscere il loro canto epico nei 27 paesi in cui il libro sarà subito tradotto. Altri romanzi e scritti dell’autore abruzzese avranno un’identica genesi e fortuna. Le edizioni in lingua italiana arrivano spesso in fogli ciclostilati, unico mezzo per eludere la censura fascista. Ma, molti saggi, racconti ed un libro fondamentale per la comprensione dei regimi totalitari come “Der Fascismus” attendono ancora una traduzione in italiano. I classici del pensiero hanno dalla loro parte il tempo e possono aspettare: noi, di meno.

[Il Messaggero Abruzzo, 21/05/1987]