Il Messaggero Abruzzo (13 settembre 2020)
di Antonio Gasbarrini
Per chi abbia “frequentato” con assiduità o solo occasionalmente le vibranti quanto attualissime pagine siloniane ed era presente alla cerimonia dell’avvenuto restauro della casa natia dello scrittore, l’esperita emozione era palpabile a vista d’occhio, nonostante la distanziatrice mascherina del Covid-19 occludesse gran parte del viso.
E ciò per molteplici ragioni. A cominciare dalla rivisitazione istantanea – da parte dei suoi numerosi lettori astanti – di quella casa evocata a più riprese nei tanti passi autobiografici. Fuori e dentro cui, il rivoluzionario antifascista in esilio, si era aggrappato psicologicamente e letterariamente agli inizi degli Anni Trenta del secolo scorso con
“ Fontamara” (Pescina dei Marsi), per superare uno dei più gravi momenti di crisi della sua travagliata esperienza clandestina. Mescolando creativamente realtà e finzione, con l’ambientazione dei suoi nostalgici ricordi ora tra queste impattanti mura in via delle Botteghe, rimesse a nuovo, ma lasciate quando aveva sette anni, ora nelle due altre abitazioni pescinesi in cui la famiglia prima e la madre vedova poi, si erano trasferiti. Qui comunque, subito dopo il suo rientro in Italia dalla Svizzera nell’ottobre del 1944, come rileva puntualmente Maria Moscardelli nella sua analitica ricostruzione cronologica biografica consultabile nel sito dedicatogli (www.ignazio-silone.net), “Rivede, per la prima volta dopo il fascismo, i parenti paterni, e accetta l’invito di restare nella casa dei Tranquilli, dormendo nella stanza dove era nato. Da allora in poi, in ogni occasione di visita a Pescina, risiede in quella casa, dove il cugino Raffaele vive con la famiglia”. Ad eccezione, si può ben precisare, dell’ultima sua venuta, nel 1975, per partecipare ai funerali di un suo amico e compagno di lotta allorché militava nel partito comunista (1921-1931): “… dopo il funerale me ne sono tornato a Roma senza parlare con nessuno; a dire la verità senza che nessuno mi trattenesse” (da una lettera scritta alla saggista Margherita Pieracci Harwell). Forse, dormendo in quella stessa stanza in cui aveva visto la luce il primo maggio del novecento, deve esser stato un po’ come immergersi nel rigenerante liquido amniotico dell’utero materno, punteggiato sì da lutti su lutti dovuti alla morte del padre, del fratello maggiore Domenico e della stessa madre nel terremoto del 1915, ma nel contempo rammemorante fonte esistenziale dove abbeverarsi insieme ai suoi amati cafoni: “Al mattino, al primo chiarore dell’alba, cominciava per la nostra via la sfilata delle greggi di capre e di pecore, degli asini, dei muli, delle vacche e dei carri d’ogni foggia e uso, e dei contadini che trasmigravano verso il piano per i lavori della giornata; e ogni sera, fino a tardi, in senso inverso e con i segni ben visibili della fatica, ripassava la processione degli uomini e degli animali” (da “Uscita di sicurezza”). Esser potuti entrare in quegli stessi ambienti restaurati a regola d’arte, anche se con alcuni scostamenti architettonici di valenza filologica dovuti alla necessità di garantire allo stabile un indice di sicurezza sismica pari all’80% ed avervi incontrato attrezzi di lavoro e botti d’epoca, respirando così a pieni polmoni tutta l’aura siloniana, è stata una catartica esperienza fuori del comune. Quanto prima, inoltre, grazie al preannunciato trasferimento degli archivi cartacei del Centro Studi e del museo dedicati allo scrittore abruzzese, insieme al potenziamento digitale, la magistrale opera cesellata con sacrali parole ed il lucido pensiero di uno dei massimi protagonisti del Novecento europeo, avranno finalmente una visibilità internazionale di tutto rispetto.