Quell’emblematico carteggio tra Ignazio Silone e Giovanni Buscemi

Il Messaggero Abruzzo 24 agosto 2019

di Antonio Gasbarrini

Spulciando tra i copiosi documenti biografici editi ed inediti d’Ignazio Silone, ci siamo imbattuti in una quindicina di lettere da lui scritte dalla metà degli Anni Trenta agli inizi dei Sessanta a Giovanni Buscemi, mentre era ancora confinato nell’esilio svizzero prima, e da Roma poi. Di esse, quattro sono state già pubblicate dallo stesso Buscemi nel libro autobiografico “Amarostico. Testimonianze euro-americane” sotto il nuovo nome Vanni B. Montana. Uscito nel dicembre del 1975 e perciò mentre l’amato scrittore abruzzese era ancora in vita. Le altre, di cui citeremo alcuni telegrafici passi, sono inedite.

La loro importanza è dovuta anche al fatto della scoperta (sul finire degli anni duemila) dello storico americano Fraser M. Sottanelli, circa la collaborazione delatoria al regime fascista prestata dal “Compagno Buscemi”, dal 1923 mentre militava nel PCD’I e sino al suo successivo espatrio a New York nel 1928. Scoperta più che ghiotta per gli implacabili inquisitori antisiloniani a tutti i costi – gli storici revisionisti – i quali, con le nuove carte d’archivio alla mano, hanno tentato di abbinare i nomi dei due ex militanti ad una aperta ipotesi di una comune attività spionistica. E lo hanno fatto in modo surrettizio, facendo pubblicare nel 2004 sulla rivista “Storia dell’Arte Contemporanea”, il testo “La doppia vita di un antifascista” della giovane laureata Angela Torelli. Ci limitiamo a citare un paio di brani: “(…) Tuttavia il rapporto tra Silone e Buscemi continuò attraverso una costante corrispondenza, sequestrata poi dalla polizia. Dalle lettere non emerge alcuna prova che dimostri se i due fossero o meno a conoscenza di essere entrambi in rapporti con funzionari di polizia”. Una subdola cattiveria che, a nostro giudizio, poteva ben essere risparmiata. Ma, veniamo adesso alle lettere inedite. Nella prima, del dicembre 1937, scrive tra l’altro: “Carissimo Buscemi, la tua lettera mi ha fatto piacere, perché da molti anni neppure sapevo se tu fossi ancora vivo. (…) La natura deve averci dato sette anime, come gatti, se, dopo tanti guai e tante disavventure, con una salute così manchevole, ci è stato possibile di ricominciare a vivere. Contrariamente a quello che tu supponi, io non sono in nessuna fazione, setta, o gruppo (…)”. All’invito di Buscemi di trasferirsi in America, così’ risponde nell’ottobre dell’anno successivo: “(…) A dire la verità, forse te l’ho già scritto?, un viaggio in America non mi attira. Se dovessi elencare le cose che mi fan paura, in ordine di gravità, potrei dire: 1. i banchetti, 2. le interviste dei giornalisti, 3. i grattacieli. (…)”. Un paio di mesi dopo comunica di aver finito di scrivere “Der Fascismus” e lo informa sul suo stato di completa indigenza: “(…) Il libro non l’ho scritto che con obiettivi … finanziari. Se potessi ricavarne il necessario per vivere 5-6 settimane, avrei la calma necessaria per cercarmi un’altra sistemazione. Altrimenti, vivendo a regime di minestra e vivendo in uno stanzino in cui entra appena una branda, la stessa volontà si infiacchisce (…)”. Nel maggio del ’39 ribadisce la sua ferma volontà di non volersi rifugiare in America: “(…) Il successo letterario non mi ha trasformato in “parvenu”. La gravità della situazione europea, lungi dall’essere un movente per lasciare l’Europa, è una ragione per restarvi. (…). Finché ci sarà un pericolo acuto di guerra in Europa, credo che resterò qui. Sono scappato già abbastanza nella mia vita (…)”. Qualche mese dopo, scrive di aver ricevuto una lettera: “(…) da un gruppo di allieve di una scuola operaia della Dressmakers Union, Local 22 di New York. Nella loro classe hanno letto la traduzione americana di Fontamara.(…)”. Poco tempo dopo chiede, al suo interlocutore: “ (…) una “collaborazione letteraria” nella continuazione di “Pane e vino”, che sto ora scrivendo. C’entra, accidentalmente, un cafone emigrato in America di cui la famiglia non ha più notizie e che infine ritorna, storpio o in altro modo invalido (…)”. Particolarmente importante, a livello non solo biografico, ma anche storiografico, risulterà la lettera del 3 gennaio ’40 in cui sollecita Buscemi a: “(…) interessarsi per ottenere un visto a Barbara, la sorella di Gabriella (la compagna di Silone, n.d.a.) e al suo compagno Pietro Tresso (…)”, le cui vite erano in pericolo, tant’è che Tresso sarà assassinato poco più di tre anni dopo, per ordine di Stalin. Nell’immediato dopoguerra (settembre del ’45) sostiene che: “(…) I prossimi mesi saranno duri; ma forse costringeranno ad uscire dagli equivoci il nostro partito. (…)”. Nell’ultima, del febbraio del ’63, in vista del suo programmato viaggio a New York ribadisce: “(…) Sarò contento di rivederti e di salutare gli amici; ma che prego di non eccedere sul preordinare incontri, conferenze e cose simili. (…)”.

Una lettera autografa a Giovanni Buscemi (6 maggio 1939)

di  Ignazio Silone

6 maggio 1939

Caro Buscemi,

se non fosse altro perché ci sei tu, in America sono moralmente tenuto a venirci almeno per un paio di mesi. Avevo pensato di cogliere l’occasione del congresso del Pen Club, malgrado l’orrore che i congressi, i banchetti e i riconoscimenti ufficiali mi ispirano; ma varie ragioni me l’hanno impedito. La più importante è che, non volendo per ora trasferirmi in America, prima di partire volevo assicurarmi che le autorità svizzere mi avrebbero riaccettato al ritorno. Il mio permesso di soggiorno in Svizzera è scaduto al 31 marzo (scade ogni anno) e non mi è stato ancora rinnovato. Se la polizia di stato qui sapesse che il console americano mi dà il visto per l’America, forse il permesso di soggiorno non mi sarebbe più rinnovato e mi si costringerebbe a fare le valigie. Questo ti meraviglierà, ma è così: sono stato espulso due volte dalla Svizzera, ma il fatto che sono espulso anche dalla Francia e che non mi si può obbligare d’andare in Italia e in Germania, ha finora costretto la polizia di qui a trattenermi. Se i rapporti tra me e le autorità non sono migliori, la colpa è mia; e, se verrò in America, tu ne capirai subito la ragione, e , cioè, io non sono affatto cambiato; il successo letterario non mi ha trasformato in “parvenu”. La gravità della situazione europea, lungi dall’essere un movente per lasciare l’Europa, è una ragione per restarvi. Con questo non voglio farti credere che io faccia chissà che cosa. Non faccio niente, (a parte leggere e scrivere, e questo lo potrei fare anche in America). Eppure, finché ci sarà un pericolo acuto di guerra in Europa, credo che resterò qui. Sono scappato già abbastanza nella mia vita. Anche con tutti i sacramenti in ordine, non credo che sarei arrivato in tempo per il congresso del Pen-Club, perché la solita iettatura mi ha indotto per una settimana all’ospedale, dal 22 al 29 aprile. Dunque, per ora il viaggio è rinviato, probabilmente di vari mesi. Nel frattempo, continua a scriverci, anche con quel tono ricattatorio                        che ti è abituale, perché ci fai un gran piacere.

Cordialmente tuo S.

Molti saluti da Gabriella.