Il Vate “rivoluzionario” e Silone “spia”: i paradossi degli storici revisionisti

Il Messagero Abruzzo 14 luglio 2019

di Antonio Gasbarrini

Il disegno di legge con cui la Regione Abruzzo ha stanziato 150.000 euro per il “Centenario” della tragica quanto farsesca impresa fiumana del Vate, ci impone alcune pacate riflessioni sull’auspicio di un taglio a-celebrativo da dare ad una tale iniziativa. Peraltro, analoga a quella curata da Giordano Bruno Guerri, Presidente e direttore della Fondazione Il Vittoriale a Gardone Riviera, con la tenuta a Trieste di un apposito Convegno e la mostra “Disobbedisco” di vari cimeli dannunziani.

E lo faremo in modo indiretto. Ponendo a raffronto, non già l’opera creativa dei due più importanti scrittori abruzzesi del primo e secondo Novecento quali sono Gabriele D’Annunzio e Ignazio Silone, bensì evidenziando alcuni momenti topici delle loro polari biografie. Guerrafondaia, ardita, proto-fascistizzante e tutto sommato più che decadente quella del primo; a totale servizio delle classi emarginate, autenticamente rivoluzionaria e francescanamente pauperistica quella dell’altro. Sul finire del 1919, mentre il cinquantaseienne D’Annunzio da novello, medioevale capitano di ventura conquista con i suoi legionari la città di Fiume per annetterla al Regno d’Italia, il diciannovenne Secondino Tranquilli da Pescina, è chiamato a dirige a Roma il settimanale dei giovani socialisti “L’Avanguardia”. Sin da tale data, gli storici revisionisti defeliciani Biocca e Canali fanno risalire – senza il supporto di alcuna prova documentale – la sua collaborazione delatoria con il commissario di Polizia Guido Bellone. Nel gennaio del 1921, mentre con la coda tra le gambe l’ex reggente D’Annunzio scacciato insieme ai suoi dal fuoco amico del governo Giolitti («Io rassegno nelle mani del Podestà e del Popolo di Fiume i poteri che mi furono conferiti”) dirigendosi a Venezia, il futuro “Compagno Pasquini”, porta il saluto della federazione giovanile socialista al Congresso di Livorno con l’adesione al nascente PCD’I. Nell’ottobre dell’anno successivo, il Vate, predestinato ad essere il condottiero d’una eversiva Marcia su Roma, di cui non sarà il protagonista dopo la “strana” caduta agostana dalla finestra del suo “buen retiro” al Vittoriale; Secondino è a Trieste, come redattore del giornale comunista “Il Lavoratore”, la cui sede sarà assaltata dalle squadracce fasciste, con il successivo suo arresto e quello degli altri collaboratori presenti in redazione. Dal 1926 (anno di promulgazione delle famigerate leggi eccezionali mussoliniane) e sino alla sua morte nel 1938, il poeta e scrittore pescarese costruirà “in progress” la sua megalomane cittadella di Gardone, grazie anche ai generosi finanziamenti del Duce. Ignazio Silone, tra un arresto e l’altro in Spagna e Francia, sperimenta sulla propria pelle tutti i pericoli insiti nella sua randagia vita clandestina, per approdare sul finire degli anni Venti nell’esilio svizzero protrattosi a tutto il 1944. Qui pubblicherà, tra gli altri, ed in lingua tedesca, “Il Fascismo. Origine e sviluppo” (1934, con alcune pagine dedicate all’impresa fiumana) e “La scuola dei dittatori”, 1938, coincidente temporalmente con l’emanazione delle abominevoli Leggi razziali fasciste. Invocare come fa Guerri la mai applicata “Carta del Carnaro” stilata a mo’ di Costituzione fiumana dal sindacalista anarchico Alceste de Ambris, rivisitata stilisticamente da Gabriele D’Annunzio con marginali aggiunte (“il Vate ha condotto un’operazione rivoluzionaria che non andava nella direzione del fascismo, ma di una società nuova, aperta e libertaria”), è, dal nostro punto di vista, e non solo, una ingannevole, deragliante scorciatoia storica. Quanto al Silone “presunta spia” costruita a tavolino dai due accademici citati più sopra, la verità su tutte le loro debordanti approssimazioni è stata ripristinata da successive ricerche condotte sugli stessi documenti, soprattutto con gli esiti risolutivi di Alberto Vacca.