Quel simbolico camino nella casa fontamarese d’Ignazio Silone

Il Messagero Abruzzo 30 maggio 2019

di Antonio Gasbarrini

Il Primo Maggio del duemila, nel centenario della nascita di uno dei massimi scrittori e pensatori del Novecento europeo – Ignazio Silone – veniva formalizzata giuridicamente la donazione tra la vedova Darina e il Comune di Pescina dei Marsi, del lascito testamentario del suo archivio personale.

Con l’epistolario ceduto in fotocopia, mentre le oltre 7000 lettere originali affluivano nella fiorentina Fondazione di Studi storici “Filippo Turati”, insieme a 4.000 libri della sua biblioteca ed altro materiale. Sempre al Comune natio dello scrittore, era stata inoltre ceduta buona parte dell’arredo presente nella loro abitazione romana. Qualche anno dopo, all’interno dell’ex Convento di S. Francesco dove era stato già varato il Centro Studi siloniano, veniva aperto al.pubblico il Museo dedicato al suo nome, dove, tra scrivania, libreria, foto, quadri ed altri preziosi documenti, è ora possibile rivivere l’aura quotidiana del nostro insigne conterraneo abruzzese. Respirando, ma anche violando di conseguenza un po’, quella sua estrema riservatezza assorbita in ben un quarto di secolo tra una antifascista lotta clandestina e l’altra, nonché nel suo lunghissimo esilio svizzero. Riservatezza dai tratti sacrali pauperistici e monacali, da lui assimilata, sopratutto, con le utopistiche figure di Gioacchino da Fiore, i fraticelli spirituali e Pietro Celestino, personaggi tutti eternati nel capolavoro de “L’avventura d’un povero cristiano”. È cronaca di questi giorni la confortante notizia della rimessa a nuovo, nel giro di un anno, della sua casa nativa situata in pieno centro storico della cittadina marsicana, frutto di un’altra lungimirante donazione da parte di due pronipoti e di risorse finanziarie garantite dalla Fondazione Terzo Pilastro, la Regione Abruzzo e il Comune di Pescina. A lavori ultimati sarà dato il via ad un Centro culturale, con il contestuale trasferimento dei documenti cartacei del nutrito archivio, tutti gli altri materiali presenti nel Museo, dove, per carenza di spazio, più di uno era stato sacrificato. Tale felice soluzione consentirà ai suoi studiosi disseminati in tutto il mondo, ma anche ai comuni lettori, di rivivere con più pregnanza i tanti passi autobiografici, ben presenti nelle pagine di alcuni suoi romanzi, a cominciare da “Vino e Pane” e “Il seme sotto la neve”, dove l’ alter ego Pietro Spina consumerà la sua sofferta crisi ideologica nell’indimenticabile, selvaggio, scenario marsicano. Di questa casa ov’era cresciuto fino ai sette anni, vale a dire prima che l’intera famiglia si trasferisse in un’altra abitazione, è opportuno soffermare l’attenzione sul valore metaforico da attribuire a quel camino visibile nella foto qui riprodotta, nelle cui vicinanze il Nostro aveva introiettalo le tante storie raccontate dagli adulti che qui trascorrevano molte ore nei rigidissimi inverni d’allora. Tra gli undici ed i quindici anni Secondino perderà il padre, un fratello e la madre, scomparsa sotto le macerie del terremoto del 1915:“(    ) Dopo cinque giorni ho ritrovata mia madre. Era distesa presso il camino, senza ferite evidenti”. Camino evocato in un suo scritto giornalistico del 1963 incentrato sul ciocco natalizio ed il suo rapporto simbolico con l’evangelica Sacra Famiglia in fuga, da ospitare, rifocillare e nascondere, lasciando la porta aperta e mettendo sul tavolo le provviste natalizie: “Come dimenticare simili esperienze? Esse istillavano il rispetto e la solidarietà per i perseguitati. Inoltre, ci davano, del mondo nel quale stavamo per entrare, un’immagine piuttosto pessimistica: era un mondo nel quale l’innocenza era perseguitata dalle stesse autorità”. Queste, sono le rizomatiche radici cristiane, etiche e rivoluzionarie del futuro e futuribile Ignazio Silone: mai tanto attuali come in questi antiumanistici giorni.

Parliamo di me

di Ignazio Silone

(…) C’è un ricordo che mi è tornato a mente nei giorni scorsi durante le feste natalizie. So che alcune vecchie usanze sopravvivono in Abruzzo, come in altre regioni; così a Natale, invece dell’albero, di origine nordica, in molte famiglie si usa ancora accendere il ceppo o ciocco nel camino. Ma temo che la tradizione sopravviva nella sua forma esteriore, svuotata del suo significato primitivo. Non so, ad esempio, se vi sia ancora qualche famiglia in cui l’usanza del ciocco sia ancora accompagnata dalla spiegazione che ne veniva data a noi, durante la nostra infanzia e adolescenza. Si accendeva il ciocco di quercia e faggio perché ardesse durante la notte, si esponevano sul tavolo le provviste natalizie e si lasciava aperta la porta di casa, perché – ci veniva spiegato dai genitori – in quella notte la Sacra Famiglia era in giro per il mondo, in fuga, ricercata e perseguitata dagli sbirri: bisognava fare in modo che se, per caso, arrivata al nostro vicolo, la Sacra Famiglia avesse avuto bisogno di sostare, potesse entrare in qualsiasi casa e riscaldarsi, rifocillarsi, nascondersi. Il racconto era senz’altro convincente ed esercitava sull’animo del bambino o ragazzo ben disposto una forte influenza. Immaginate dunque che cosa poteva essere per noi la notte di Natale. Impossibile dormire. Da un momento all’altro la Sacra Famiglia poteva arrivare a casa nostra. Assai spesso i rumori del vento contro gli infissi della finestra e i battenti della porta rimasta aperta ce lo facevano credere. Come dimenticare simili esperienze? Esse istillavano il rispetto e la solidarietà per i perseguitati. Inoltre, ci davano, del mondo nel quale stavamo per entrare, un’immagine piuttosto pessimistica: era un mondo nel quale l’innocenza era perseguitata dalle stesse autorità. Non credo che sia esagerato affermare che un simile insegnamento poteva lasciare in un animo predisposto una traccia indelebile. Esso fa parte integrante di quelle che ho chiamato la nostra eredità cristiana.

Da “Il Resto del Carlino”, 18 gennaio 1963