Il mio Silone

di Errico Centofanti

Ho a lungo patito come un’insopportabile menomazione l’esser venuto al mondo in un momento in cui il mio Paese era guidato da un re fellone e da un’oligarchia fascista. L’oppressione di quella sorta di marchio d’infamia s’attenuava a mano a mano che andavo acquisendo la consapevolezza d’appartenere a una famiglia fondamentalmente radicata nella tradizione dell’anarchismo risorgimentale e del socialismo e d’essere stato educato nel solco di quella tradizione.

          Accolsi perciò come un prezioso segnale d’incoraggiamento e di fiducia il dono che ricevetti sulla soglia dei vent’anni, in quella fase irrequieta e irresoluta che in qualche modo potrei definire come un mio personale ’68 ante litteram. Il dono veniva dallo zio Italo, uno dei rari parenti da me amati, i cui figli erano e sono per me in primo luogo amici e poi piú fratelli che cugini, loro e io avendo per madri due sorelle, oltre che due fratelli per padri. Lo zio Italo mi regalò le ingiallite pagine dell’edizione del 5 Giugno 1946 dell’Avanti!, l’allora glorioso quotidiano dei socialisti. Mi disse di leggere e memorizzare l’editoriale, i cui ragionamenti sarebbero stati preziosi per liberarmi dai fantasmi di un passato che non m’apparteneva e per guadagnare l’equilibrio necessario in funzione delle ineludibili responsabilità della vita adulta.

          Fu cosí che scoprii Silone. Era lui, allora direttore dell’Avanti!, l’autore di quell’editoriale. Silone raccontava il significato e le emozioni della vittoria repubblicana nel referendum indetto per scegliere la forma di Stato con cui fondare la nuova Italia rinata sulle ceneri della tragica avventura monarchico-fascista.

          Il nucleo centrale di quel breve testo m’è sempre rimasto vivo nella mente e nel cuore:

          «Nessuno di noi potrà mai dimenticare questa notte di Giugno. La nascita della Repubblica Italiana non è sorta da un assalto alla Bastiglia monarchica, né da alcuna altra forma d’intervento improvviso di forze rivoluzionarie; e pertanto il suo annunzio non si è prodotto come un grido dell’impeto creatore del popolo, ma secondo un meccanismo elettorale affidato ad una vecchia burocrazia che pure nei momenti più solenni non dimentica la sua virtù principale: la prudenza. L’intervento burocratico ha potuto evitare che l’attesissima notizia fosse, come di dovere, subito propagata, e che al primo annuncio seguisse la naturale esplosione di una gioia di popolo a lungo tenuta a freno. Noi abbiamo dunque dovuto sopportare, in pochi, e in silenzio, durante un certo numero di ore, l’eccezionale notizia; e l’indicibile emozione, a stento dissimulata, ha occupato tutta la nostra anima, acquistando una dimensione di vastità e profondità irraggiungibili agli ordinari fatti politici. Non potendo subito lanciare la lietissima notizia ai vivi, ci siamo messi allora a pensare, senza enfasi retorica, ma semplicemente e naturalmente, in obbedienza ad un bisogno irresistibile di comunione, ai nostri più cari, agli amici e compagni che per la libertà sono morti e che oggi non sono qui, per rallegrarsi assieme a noi. L’impressione più precisa e vicina alla nuova realtà è legata alla nozione stessa di nascita: la vittoria della repubblica è cioè innegabilmente un atto di vita […], un atto di buona salute, un atto di liberazione, un atto di creazione, una forma nuova per una realtà nuova […]. La vittoria della Repubblica è un fatto di vita e non di ideologia; è la risposta improrogabile ad alcuni bisogni acuti ed essenziali della società italiana. È un vero atto di nascita, un atto di festa. È la giornata più lieta della lunga storia della nostra patria».

          Fu inevitabile, poi, che io cercassi e leggessi altro di Silone, a cominciare da Fontamara. Scoprii così lo zoccolo di sofferenza dura e disperata della mia gente, avviandomi verso una consapevolezza finalmente non più romantica e velleitaria delle ragioni del doversi impegnare per l’edificazione di un mondo migliore.

          Fu cosí che maturai la mia intensa venerazione per l’universo etico e letterario di Silone, venerazione che s’è conservata intatta, sebbene resti tuttora irrisolta, per me, la questione del perché egli non abbia poi voluto distinguere tra l’ottusa degenerazione burocratica del comunismo sovietico e la fondamentale anima illuminista del comunismo italiano, finendo col disperdere sia l’acqua sporca della componente fallimentare dell’esperienza sovietica sia il vigoroso bambino del comunismo italiano, il quale aveva saputo rendersi redentore della dignità nazionale nonché fondatore e tutore della nostra democrazia repubblicana.

          In anni successivi, quando mi ritrovai, insieme con Peppino Giampaola e Luciano Fabiani, a guidare la fase fondativa e gli anni migliori del Teatro Stabile dell’Aquila, il mio rapporto con Silone si sviluppò lungo nuovi e fino ad allora inimmaginati sentieri: non piú soltanto attraverso le pagine dei libri bensì mediante una diretta relazione interpersonale. All’epoca (prima metà degli anni ’60), Silone era un po’ in ombra, sopra tutto perché il Partito Comunista, considerandolo un “traditore”, gli negava il riconoscimento del prestigio artistico e intellettuale che invece assicurava ad altri, spesso meno meritevoli. Tanto per dirne una, ben pochi tenevano conto dell’opinione di Bertolt Brecht: «Silone è uno dei nostri migliori. “Fontamara” e “Pane e vino” sono libri grandiosi».

          Noi del Tsa contribuimmo a restituir luce a Silone in una cerchia ben piú vasta di quella degli addetti ai lavori. Avevamo deciso che un permanente filone di lavoro del Tsa avrebbe dovuto riguardare la riproposta scenica degli abruzzesi resisi artefici di significativi apporti alla drammaturgia nazionale: dall’abate Galiani a d’Annunzio, da Luigi Antonelli a tanti altri. Fu Giampaola a proporre l’inserimento nella nostra lista anche di Silone, del quale rivelò a me e Fabiani l’esistenza d’un copione di cui noi non avevamo notizia.

          Il giorno seguente, Giampaola mi portò il testo: uno smilzo quadernino stampato su carta poverissima nel 1945 nella Roma da poco liberata. Lo lessi una prima e una seconda volta quella stessa notte. Tra i copioni sui quali allora stavamo ragionando c’era Nekrassov, che Sartre aveva scritto nel 1955. Trattandosi di una divertente satira della dilagante scempiaggine anticomunista, ci pareva che la messinscena di Nekrassov, nel perdurante clima piuttosto intossicato della Guerra Fredda, avrebbe potuto contribuire a svelenire tante spigolosità del dibattito politico.

          Nel leggere il dramma di Silone, mi venne in mente una frase di Camus: «Guardate Silone. Egli è radicalmente legato alla sua terra, eppure è talmente europeo». Infatti, vicenda e personaggi erano stati modellati su fatti e persone della terra di Silone, del nostro Abruzzo, trasfigurati artisticamente in un linguaggio e in un ragionare d’universale portata. La didascalia d’apertura ribadiva orgogliosamente l’ispirazione abruzzese: «L’azione si svolge nell’autunno del 1935 in Italia, nella zona di Abruzzo chiamata Marsica». E poi, introducendo la prima edizione a stampa (Baden, 1944), Silone aveva scritto: «Le persone di questo dramma sono uomini di oggi, ma “vengono da lontano e vanno lontano”. Essi non si esauriscono nella cronaca».

          Si trattava di Ed egli si nascose, composto in Svizzera negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale. Il suo impianto derivava da Pane e vino, il secondo dei grandi romanzi siloniani, e manifestava il respiro di una solenne e struggente orazione laica sulla Resistenza. Condensata dallo stesso autore in poche magistrali parole, questa è l’essenza dell’opera: «Gli “uomini affamati e assetati di giustizia” sono ancora derisi perseguitati uccisi. Lo spirito per salvarsi è costretto ancora a nascondersi».

          Quella mia notte di lettura e riflessione aveva evidenziato l’inutilità dell’andare troppo lontano: per proporre al nostro pubblico uno spettacolo degno dell’etichetta di “opera d’arte” e, nel contempo, capace d’indurre a pensare, a guardare criticamente dentro se stessi e intorno a sé, avremmo potuto attingere qualcosa d’assai più vicino a noi di quanto potessero esserlo Sartre e altri.

          Il giorno dopo, dissi a Giampaola e Fabiani che Ed egli si nascose poteva e doveva diventare una sorta di vivente manifesto programmatico del nostro modo d’intendere il teatro quale servizio pubblico impegnato nell’edificazione morale della Repubblica. Ragionammo sopra i pro e i contro, come sempre anche con punte al calor bianco, e infine fummo tutti d’accordo.

          Messo in scena a Zurigo e Copenaghen nel 1945 e successivamente in altri Paesi, ma mai in Italia, Ed egli si nascose fu il secondo allestimento di grande impegno produttivo dell’allora nascente Tsa e il primo di quelli trasposti dalla Rai sul piccolo schermo. Si debuttò a fine Ottobre del 1965 e s’andò in giro attraverso l’Italia per diversi mesi, con “grande successo”, come suol dirsi e come veramente accadde, tra l’altro ospitati a Milano dal Piccolo Teatro, allora diretto dalla mitica coppia Grassi-Strehler. La regia fu di Giacomo Colli, la scenografia e i costumi di Mischa Scandella. In scena avevamo 20 attori. Nel ruolo principale agiva il nostro “primo attore” di quegli anni, Achille Millo, che se n’è andato il 18 Ottobre 2006, proprio nello stesso giorno in cui sto finendo di scrivere queste righe.

          Sull’onda del successo di Ed egli si nascose, ci venne voglia di chiedere a Silone se egli volesse fare un passo più in là. Lo pregammo d’incontrarci per fare quattro chiacchiere a mo’ di bilancio dell’esperienza di Ed egli si nascose. Aderì volentieri e anzi s’offrì d’invitarci a cena. Fissò l’appuntamento da Ranieri, in Via Mario de’ Fiori, uno dei migliori ristoranti romani. Tra specchiere dorate e tappezzerie di velluto rosso, il tutto un po’ appassito ma confortevole, la serata andò avanti piacevolmente. Parlammo di Uscita di sicurezza, da mesi al centro di un infuocato dibattito politico-culturale, e scambiammo qualche battuta sulle diversificate opinioni che ciascuno di noi nutriva a proposito della vigente stagione politica e di un po’ d’altri argomenti di varia umanità, finché giunse il momento giusto per mettere in tavola il nostro argomento principale: la proposta di scrivere un testo appositamente pensato per il Tsa.

          Conforme al suo stile sobrio e impassibile, Silone non imbandì il vaudeville con cui in casi del genere i piú si mettono a menare il can per l’aia per lasciarsi adulare e sedurre. «Si potrebbe fare», fu tutto quel che disse, dopo pochi secondi di silenziosa osservazione dei nostri sguardi. Aggiunse d’avere in mente un qualcosa che forse si sarebbe prestato a lasciarsi scrivere in forma di testo teatrale. Un qualcosa a proposito di Celestino V e della sua drammatica rinuncia al pontificato. Un qualcosa sull’eterno conflitto tra coscienza e potere. «Vi potrebbe interessare?». Non ci fu bisogno d’un consulto, tra Giampaola, Fabiani e me. Un testo di Silone scritto apposta per noi lo avremmo messo in scena a qualunque costo, qualsiasi argomento avesse affrontato. I nostri «Sì, certamente» attraversarono le labbra all’unisono. Poi, parlammo brevemente dei prevedibili tempi d’esecuzione e, in linea di massima, della struttura drammaturgica e delle caratteristiche dei personaggi principali.

          Quella da Ranieri fu una sera d’inizio estate del 1966. Tre anni dopo, nell’estate del 1969, andava in scena L’avventura d’un povero cristiano. L’edizione a stampa era uscita da Mondadori nel Marzo del ’68. Ci volle un altro anno per prepararne la messinscena. Fu uno dei due spettacoli con cui simultaneamente, nell’estate del ’69, offrimmo il nostro contributo alle epocali discussioni innescate dal ’68. L’altro era il Coriolano di Shakespeare.

          Silone, in quella sorta di autointervista, apparsa in diverse versioni, in vari anni e sotto differenti titolazioni, che per lo più è nota come Confiteor, rivolgendosi la domanda «A quali lettori pensi, di preferenza, quando scrivi?», esprime la risposta che ogni professionista della scrittura, dello spettacolo e dell’arte in generale dovrebbe saper mettere in pratica quotidianamente: «A donne, a uomini inquieti, disposti anch’essi a riflettere». Con i primi vent’anni del Tsa, noi, Giampaola, Fabiani e io, proprio per un pubblico “disposto a riflettere” abbiamo costantemente impostato il nostro lavoro.

          In una fase in cui su tutto prevaleva l’urgenza di una profonda rigenerazione etica e morale, nel ’69 proponevamo sulla scena due modelli di uomini strenuamente renitenti a qualsiasi compromesso con la propria coscienza: l’eroico papa del “gran rifiuto” e l’intransigente condottiero romano. Non per caso, Silone, nella battuta finale del suo dramma, mette sulle labbra di Fra Tommaso quest’allusione a Celestino V: «È probabile che torneranno di nuovo a offrirgli un compromesso. Non c’è dubbio che lui lo rifiuterà. E allora temo che l’uccideranno». Il che sembra echeggiare il conclusivo elogio funebre dettato da Shakespeare per Coriolano: «Portate via di qui il suo corpo e lamentate la sua morte. Che sia considerato come il più nobile corpo che mai araldo abbia seguìto alla fossa funebre».

          Dopo le settimane di prove all’Aquila, le nostre due compagnie partirono per la Toscana e il Piemonte: L’Avventura avrebbe debuttato a San Miniato e il Coriolano a Torino, luoghi abbastanza distanti dall’Aquila e l’uno dall’altro. Fu un’estate di convulsi andirivieni attraverso mezza Italia. Il 21 Luglio, quando Armstrong e Aldrin misero piede sulla Luna, stavo incollato davanti un televisore nell’atrio del Sitea di Torino, a portata di mano del centralino dell’hotel, che ogni tanto squillava per le chiamate da San Miniato.

          Il debutto torinese, con Gigi Proietti nel ruolo del titolo e la regia di Antonio Calenda, andò magnificamente e altrettanto accadde a San Miniato, dove la nostra produzione aveva schierato un vero e proprio parterre du roi: regia di Valerio Zurlini, scenografia e costumi di Alberto Burri, musiche composte da Mario Zafred, i panni di Bonifacio VIII sulle monumentali spalle di Gianni Santuccio e, con geniale invenzione tutta di Zurlini, da noi entusiasticamente assecondata, l’allora ancor giovane Giancarlo Giannini nel ruolo dell’ottantaquattrenne Celestino, proposto al pubblico come smagliante immagine di giovanile splendore intellettuale. Silone aveva assistito alle ultime prove e, quando andammo a salutarlo, dopo gli interminabili applausi, si lasciò andare a un semplice, lentissimo, intenso «Grazie!», che, stante la densa laconicità del suo abituale eloquio, equivaleva per noi a un estesissimo discorso gratulatorio.

          Silone ero andato spesso a incontrarlo, nel corso del lavoro di scrittura dell’Avventura: nella Biblioteca Provinciale dell’Aquila, all’Hotel Montecagno di Rocca di Cambio, nella sua abitazione romana, al 36 di Via di Villa Ricotti, a due passi da Piazza Bologna.

          Proprio in Via di Villa Ricotti, nel corso della preparazione di Ed egli si nascose, era accaduto qualcosa d’eccezionale rilievo per me. Già allora, che di anni ne vantavo piuttosto pochi, avevo letto molto e comunque abbastanza da aver capito quale inesauribile impresa fosse quella della conoscenza. Già m’ero affrancato dalla stupidità di quella predominante componente del sistema scolastico e universitario che tutto basa su un nozionismo finalizzato a trasmettere un po’ di impolverate informazioni piuttosto che strumenti critici e il sapere. Tuttavia, ancora m’illudevo, in ragione della mia giovanile baldanza, di saper distinguere il bene e il male, il brutto e il bello, il buono e il cattivo della gran madre della civile convivenza, cioè della politica.

          Quel pomeriggio, per la prima volta mi trovai da solo a solo con Silone e, nella fase preliminare dell’incontro, fui lieto di corrispondere al garbato interrogatorio con il quale egli, probabilmente, intendeva mettermi a mio agio e, sicuramente, mirava all’accertamento del contesto umano e culturale nel quale la sua opera era destinata a prendere vita scenica.

          Quando mi chiese se io fossi politicamente schierato, ben conoscendo la tempestosa e clamorosa evoluzione della sua originaria militanza comunista, mi parve indelicato, in quel momento, sbattergli in faccia un secco «Sono comunista», sebbene allora non fossi ancora iscritto al Partito di Togliatti. Mi limitai a un’espressione apparentemente generica, la quale, tuttavia, in quegli anni veniva in buona sostanza intesa come un sinonimo di “comunista”. Risposi, tra il dimesso e l’orgoglioso, «Sono antifascista».

          Impossibile dimenticare quel che seguì. Infatti, non solo non l’ho dimenticato ma, per me, è diventato l’inflessibile e indefettibile baricentro di quella quotidianità che, per chiunque agisca pubblicamente, è il “far politica”.

          Contrariamente a quello su cui allora avrei scommesso qualsiasi cosa, Silone non reagí con simpatia e condividendo. Mi gelò, invece, con un bruciante «Che vuol dire “antifascista”?». Notato lo sbiancarsi del mio volto e l’imbarazzato silenzio susseguente, aggiunse: «Non basta essere “contro” qualcosa. Occorre essere “per” qualcosa. Volendolo, si può essere fascisti, oppure si è qualcosa d’altro». Poi, la conversazione proseguì in termini di maieutica socratica, con Silone che mi guidava a chiarire come si sia sempre, necessariamente e razionalmente, “per” qualcosa e come non ci si possa identificare in ragione di una mera pulsione “contro”.

          Fu cosí che ho imparato a diffidare dei puri e semplici proclami “anti” questo e “anti” quello. Da allora, non mi sono più bastate le dichiarazioni di fede “antifascista”. Analizzando persone e posizioni, ho notato come spesso vengano imbracciate insegne “antifasciste” pur seguitando a praticare machismo, intolleranza, superficialità, consumismo e tutte le altre empietà che insultano le idee, la storia e i martiri della Sinistra. Del pari, trovo privi di senso argomenti come l’essere “antiberlusconiani” o il dover “battere la Destra”. A me e a tutti serve una Sinistra che lavori “per” un progetto di società, “per” una strategia progressista, “per” idee sulle quali valga la pena d’impegnarsi, che sia vittoriosa in ragione della sua virtú, della sua storia, dei suoi valori, del suo saper essere piú affidabile dei competitori. Questo, per me, è stato il piú prezioso tra gli insegnamenti di Silone, il cui magistero, a saper vedere, non risiede soltanto in un frammento di conversazione ma affiora da ciascuna delle sue pagine. È un magistero che vive e vale, che non v’è divergenza d’ideali politici capace di scalfirne la portata.

[In Regione Abruzzo, periodico del Consiglio Regionale, 19 Ottobre 2006 / poi nel mio libro sul Tsa uscito nel 2013:Cinquant’anni dopo: Azioni e divagazionida con in per sopra sotto attraverso il Tsa]