Silone e la Perdonanza: L’Avventura di un povero cristiano in teatro*

di Angelo De Nicola

L’Avventura in teatro

L’Avventura di un povero cristiano a teatro fu un successo per Silone e anche per il “giovane” Teatro Stabile dell’Aquila (Tsa) che proprio in quegli anni si va affermando a livello nazionale. Un successo per il Tsa durato un battito di ciglia, per varie ragioni, al contrario di Egli si nascose (anche qui un “eremita” in rapporto con i diversi aspetti del potere, anche qui l’Abruzzo chiuso e ospitale, nella sua memoria cristiana), testo di un’opera teatrale che, tratta dal suo romanzo Vino e pane, Silone pubblicò in lingua tedesca nel 1944, nel periodo in cui si trovava in esilio in Svizzera e che la moglie Darina tradusse curandone, poco dopo, l’edizione inglese; l’edizione in lingua italiana uscì nel 1944 nel Canton Ticino per opera de La Ghilda del Libro, una piccola casa editrice che lo stesso Silone aveva fondato l’anno precedente.

Ed Egli si nascose

Come scrive il giornalista e scrittore Antonio Di Muzio nella sua storia del Tsa[i], «la nuova stagione dello Stabile iniziò al Teatro Comunale dell’Aquila il 31 ottobre 1965 con Ed Egli si nascose di Silone per la regia di Giacomo Colli[ii]. Si scelse Silone proprio in coincidenza con l’assegnazione all’autore del Premio Marzotto per Uscita di sicurezza. Anche se tale coincidenza era casuale in quanto tra il Tsa e Silone erano da tempo in corso trattative per l’allestimento del dramma, per la prima volta rappresentato in Italia, dopo la sua ultima versione riveduta e corretta, che, rispetto al testo precedente, poteva definirsi un lavoro nuovo quasi del tutto.

Sull’Espresso del 7 novembre uscì un articolo dal titolo Silone non vuole il vestito del prete, che descriveva i problemi e gli inconvenienti durante le prove all’Aquila (addirittura la compagnia fu costretta a trasferirsi a Rieti per l’indisponibilità del Comunale aquilano: le caldaie del teatro, raramente utilizzate, scoppiarono. Oppure i dubbi, i malori e le angosce del protagonista prima delle rappresentazioni). Silone, inoltre, non permise una variante al regista riguardante l’utilizzo di una tonaca da prete. Lo scrittore disse a Colli: «Non posso permetterla. È come se mandassi a Mondadori un romanzo e lui aggiungesse un capitolo… Lei capisce…». E Colli la tolse.

La rappresentazione di scena all’Aquila, però, non fu all’altezza della situazione secondo il giornalista Corrado Augias all’epoca inviato di Sipario.

Dispiace che lo spettacolo non sia stato interamente all’altezza dello splendido dramma, con la sola eccezione delle belle scene di Misha Scandella, perfettamente intonate alla allusività insofferente di eccessive precisazioni del testo. La regia di Colli invece non ci sembra sia stata altrettanto indovinata. Ha nuociuto la commistione di elementi naturalistici ed epici, il disordine a volte irritante dei movimenti, insomma l’avvertita mancanza di uno stile preciso.[iii]

Di altro tenore la recensione di Renzo Tian per Il Secolo XIX.

L’eccezionalità di questo spettacolo gli assegna dunque un posto a parte nella nostra produzione teatrale. La realizzazione di Colli, del resto, si è ispirata soprattutto a una serietà di disegno che potesse restituire sulla scena il tono di parabola terrena che è proprio del testo. Tenuta a debita distanza ogni forma di realismo, di bozzettismo, di folklorismo, il massimo risalto è stato dato all’ampiezza del problema morale posto al dramma. Anche la scena di Scandella, composta da semplici elementi e centrata su toni grigi, obbediva allo stesso criterio; e così la recitazione, orientata verso una misura d’insieme. Se un appunto può farsi, questo riguarda l’impostazione del personaggio di Pietro Spina, interpretato con generosità e foga da Achille Millo, ma spesso venato di atteggiamenti solenni ed enfatici che contrastavano la sua essenza fervida e dimessa. Mario Maranzana è stato un eccellente Fra Celestino: Claudia Giannotti ha tratteggiato delicatamente la mite figura di Annina; Mico Cundari ha impersonato l’ambigua figura del delatore. Il successo della serata aquilana si è riversato soprattutto su Silone, chiamato in palcoscenico alla fine e festeggiato a lungo con affettuosa insistenza, dagli spettatori plaudenti insieme con tutti gli attori e col regista»[iv].

Silone, dopo i trionfi al Comunale dell’Aquila – scrive Di Muzio -, nei giorni successivi incontrò studenti e intellettuali aquilani nelle sale del Grand Hotel et du Parc nel quadro delle iniziative culturali organizzate dal professor Ugo Leandro Japadre[v] e coordinate dal docente universitario Francesco de Aloysio. Successivamente lo spettacolo approdò alla Pergola di Firenze e poi a Milano.[vi]

Il successo di Ed Egli si nascose è anche televisivo. Lo sottolinea, con enfasi, il giornalista Bruno Vespa, all’epoca cronista di punta   del Tempo dell’Aquila, presentando l’evento televisivo:

Stasera alle 21 sul programma nazionale la televisione, come s’è annunciato, trasmette il dramma di Ignazio Silone Ed Egli si nascose nell’allestimento del Teatro Stabile dell’Aquila. Lo spettacolo avrà la durata di due ore con un solo intervallo tra i due tempi e l’unica differenza che presenterà rispetto all’edizione data in teatro è costituita dalle scene che Mischa Scandella ha dovuto adattare alle esigenze tecniche della TV.

Questa trasmissione costituisce per lo Stabile e per L’Aquila un traguardo di eccezionale portata culturale. Fino a questo momento le uniche compagnie stabili che hanno registrato per la TV erano quelle di Milano, Torino e Genova, sulle undici esistenti in Italia e questo inserimento dell’Aquila tra i grandissimi Stabili è assolutamente notevole se si pensa che la compagnia di prosa ha debuttato soltanto nel marzo dell’anno scorso. E la TV non si è mai servita di compagnie private, ad eccezione della Compagnia dei giovani Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri, Romolo Valli. Francamente vedere il nome del Teatro Stabile dell’Aquila accanto a quelli, limitatissimi, del fior fiore del teatro italiano, lusinga la città che vede una delle sue più alte istituzioni di cultura giungere ad un traguardo tanto importante e significativo.

Con la rappresentazione di questa sera, la televisione intende onorare anche l’idea di Ignazio Silone che dopo 30 anni di singolare silenzio sulla sua opera, ha visto in pochi mesi esaltare il suo messaggio da tutta la stampa italiana, ad eccezione naturalmente di quella di estrema sinistra alla quale Ed Egli si nascose ha dato comprensibile fastidio. Come già si accennava ieri, questo spettacolo nell’allestimento dello Stabile dell’Aquila, ha visto circa cento recensioni ufficiali sulle edizioni nazionali dei massimi quotidiani italiani ed ha avuto larghe attenzioni da Le Figarò, The Times, The Financial Times, Daily American ed altri autorevoli organi internazionali. Un record sbalorditivo se si pensa che fino a questo momento spettacoli eccezionali come la Maria Stuarda o Le baruffe chiozzotte non hanno superato la sessantina»[vii].

Di Muzio conferma, nella sua ricostruzione ex post, quel momento di grazia del connubio Silone/Tsa:

Anche nel Teatro, dunque, si guardava all’Aquila e il Tsa, decimo Stabile in ordine di fondazione, era in quanto a peso e influenza, già il quarto d’Italia dopo Milano, Torino e Genova. L’11 febbraio 1966, poi, in via Teulada a Roma con Ignazio Silone iniziarono le riprese televisive di Ed Egli si nascose. Il dramma sarebbe stato trasmesso dal programma nazionale della Tv il 29 aprile 1966. Nel contempo la compagnia stava dando l’ultima replica al Teatro delle Arti. La parentesi capitolina era stata particolarmente fortunata per lo Stabile con il pubblico numeroso e soddisfatto, e critica concorde nel sottolineare i valori del dramma e la bontà della scelta e dell’allestimento del Tsa.

Un’attività, questa, che non sfuggì ai responsabili della prosa tradizionalmente assai restii a mandare in onda lavori rappresentati da compagnie non ingaggiate direttamente dalla Tv. Per la prima volta anzi, dopo cinque anni, negli studi di via Teulada veniva ammesso un complesso non creato per l’occasione.

Erano giorni fervidi di contatti e di accordi ad alto livello. Mentre il Tsa aveva in corso gli impegni per l’ultima parte della stagione e per la partecipazione al Festival dei Due Mondi, l’organismo aquilano aveva perfezionato gli accordi con gli Stabili di Torino e di Genova per una serie di spettacoli in scambio. Il lavoro di Silone, infatti, sarebbe stato rappresentato a Genova (14-20 febbraio), mentre dal 21 febbraio al 6 marzo sarebbe andato in scena al Teatro Gobetti di Torino. Di contro i due organismi avrebbero portato alcuni lavori all’Aquila nella stagione successiva.[viii]

Si contarono cento repliche di Ed Egli si nascose.

San Miniato

Tre anni dopo va in scena la Prima mondiale dell’Avventura di un povero cristiano il 3 agosto del 1969 a San Miniato, a cura dell’autorevolissimo Istituto del Dramma Popolare. È ancora un successo.

Scrive, compiaciuto, lo stesso Silone:

La maggior parte degli spettatori che a San Miniato e all’Aquila hanno assistito alle rappresentazioni dell’Avventura d’un povero cristiano, ha dimostrato in vari modi di sentirsi parte in causa. Vi sarebbero da approfondire i motivi di questa partecipazione, che sono probabilmente diversi o magari contrastanti, ma è una ricerca che si può rimandare alla ripresa autunnale delle rappresentazioni. Ora preferisco rispondere brevemente al critico che ha motivato una sua riserva appunto sull’attualità del lavoro. “Ieri come oggi, egli ha scritto, il problema reale non sembra essere quello del disimpegno della Chiesa dalla politica, ma piuttosto di un diverso tipo d’impegno”. Ora tutto sta nell’intendersi sul senso da dare ai termini di attualità e di politica.

Riconosco senz’altro che Pier Celestino, né quello storico, né quello del mio dramma, non offre alcuna indicazione, ad esempio, per un diverso schieramento dei partiti politici italiani o per un diverso tipo di rapporti fra cattolici e comunisti; ma nessuno può pretendere che l’attualità e la politica, nel mondo d’oggi, si esauriscano in problemi siffatti. Un maestro di religione, fortemente impegnato nei dibattiti postconciliari e particolarmente sull’orientamento sociale della Chiesa, padre Ernesto Balducci ha scritto, per la presentazione dello spettacolo di San Miniato, un testo intitolato “Un’avventura antica sempre nuova” che risponde esaurientemente al dubbio del critico e così conclude: «Quando Silone mette di fronte Celestino V e il cardinale Caetani, presta loro, con sostanziale fedeltà alla verità del passato, i medesimi termini con cui, al presente, la Chiesa cattolica è, dentro se stessa, in lotta con se stessa». Ma non è sostanzialmente diversa la natura del malessere che nella nostra epoca affligge quasi tutte le rimanenti strutture politiche e sociali, dilaniate dall’incoerenza fra i propri principi e i propri atti. Nei documenti fondamentali di tutte le istituzioni si proclamano infatti come sacri i diritti dell’uomo, l’uguaglianza dei cittadini, la fraternità, la libertà, la pace; ma, più o meno ovunque, in nome della ragione di Stato, viene praticamente giustificato il contrario: il razzismo, la schiavitù, la miseria, la censura, la guerra o l’occupazione armata di altre contrade. Da ciò deriva la cattiva coscienza che ammorba il nostro tempo, e la contestazione giovanile ha la sua vera giustificazione come rivolta contro una società in mala fede.

L’idea del teatro dove la comunità è raccolta a giudicare il proprio mondo morale è antica come il teatro.[ix]

È ancora Di Muzio a ricostruire quel successo siloniano visto dalla prospettiva del Tsa:

Valerio Zurlini, uno dei grandi della regia italiana, presentò dal 3 al 9 agosto alla XXIII Festa del Teatro in prima mondiale L’avventura di un povero cristiano. Lo scenario era la piazza di San Miniato al Tedesco a Pisa, mentre le scene e i costumi erano di Alberto Burri. Assistente alla regia anche l’aquilano Paolo Rubei.

Il ruolo di Giancarlo Giannini

L’idea di affidare la parte di Celestino V a un giovane attore, appena 27enne, riscuote consensi:

Il critico Tian approva:

La regia di Zurlini è dignitosa, anche se fa leva più sulla verosimiglianza che sulla fantasia: il ritmo dello spettacolo non sempre è sufficientemente teso, e nella recitazione si avvertono alcune sgranature. L’idea di affidare la parte del quasi ottantenne protagonista a un attore giovane e impulsivo come Giancarlo Giannini, in sé non è cattiva, in quanto suggerisce il simbolo di una freschezza di energie che va al di là dell’età storica.[x]

Anche l’inglese The Financial Times, è d’accordo:

Il regista di questa prima rappresentazione di San Miniato, Valerio Zurlini, ha avuto un’idea audace: invece di scegliere un attore vecchio, uno dei molti «grandi vecchi» del teatro italiano, cui far impersonare l’ottantenne Celestino, ha scelto un attore molto giovane, Giancarlo Giannini; non ha cercato poi di «invecchiarlo» e lo ha apparentemente incoraggiato a recitare la parte «contro» le indicazioni dell’autore. Così, invece di un attempato, serafico monaco, Celestino è diventato un «arrabbiato», nervoso, talvolta confuso giovane protestatario. Per chi conosce bene il testo la cosa è sulle prime sconcertante. Ma, nonostante desideri vedere un giorno Celestino recitare com’è descritto, alla fine Giannini m’è parso convincente. E Giannini ha dato vita al simbolo. […]. Il dramma è stato dato all’aperto, nella splendida piazza dominata dal Duomo del XII secolo. I frequenti riferimenti francescani alla natura prendevano un significato particolare quando degli uccelli svolazzavano nell’aria sopra il palco e le cicale, ingannate dalle luci artificiali, raschiavano come se fosse giorno. Vi erano tre magnifici fondali di Alberto Burri, che ha creato anche i semplici azzeccati costumi.[xi]

La scelta-provocazione di Giannini piace anche ai critici tedeschi:

Il regista Zurlini, che non trasferisce sempre felicemente la sua esperienza cinematografica in teatro, ha posto nel ruolo del vecchio eremita un giovane attore, Giancarlo Giannini, il Romeo di Zeffirelli. Ciò sorprende all’inizio ma convince in seguito grazie alla coerenza dell’idea registica. Il bravo giovane interprete diviene simbolo della Chiesa giovane, che nella profusione dell’amore cristiano demolisce il vecchio e vuol dire nuovamente qualcosa di eternamente valido.[xii]

Così il regista Zurlini, difende la sua idea rivendicando la “benedizione” dello stesso Silone:

«[…] Ricordo che nelle prime riunioni con l’autore ero perplesso di fronte ad alcune apparenti ingenuità – per chiamarle così – del personaggio. E Silone mi rispondeva: «Certo. Celestino era anche così». Replicava ad ogni osservazione con la consapevolezza di una ricerca non arida, non solamente erudita, ma serenamente conscia che la grandezza non esclude la miseria, come la vocazione non sempre nega il compromesso. Allora gli proposi una versione violenta del testo, sempre in vista di escludere il falso realismo di una ricostruzione che, quand’anche fosse riuscita appieno, avrebbe appiattito tutto su un fondale verosimile ma non vero. Gli dissi: «Scegliamo una strada per Celestino. È vero che si può essere insieme grandi e vili. Scegliamolo grande. Scegliamo la strada delle idee che amiamo di più». Ebbe un curioso e dolce sorriso di approvazione. E concluse serenamente: «Io ho scritto il mio testo. È lì. L’autore dello spettacolo è il regista. Io approvo le sue idee».

Bene. La riduzione è ricavata dal testo di Silone, senza aggiunta di nuove scene, fuorché una che egli ha espressamente scritto; senza una interpolazione di battute, un cambio di aggettivi.

Si sono soppresse tante e tante pagine, spesso bellissime, ma senza mai violentare o alterare lo spirito e la lettera della tragedia. Così come essa è stata rappresentata non esiste problema di età del protagonista (si pensi a quanto era giovane San Francesco), e la attuale pubblicazione del testo sta a dimostrarlo. Il fuoco giovanile, la impotente volontà di riformare il mondo, il disgusto per ogni compromesso erano nel testo: ho cercato solo di isolarle, incoraggiato da Silone, e senza alcun ricorso facile ed effettistico ad una contestazione globale che forse fu più genuina, forte ed intransigente allora nelle gelide grotte del Gargano che non nei giardini di Valle Giulia o nelle strade del Quartiere Latino. Non una parola ascoltata a San Miniato contraddice l’età e il volto di un venticinquenne. La purezza, seppur non necessariamente giovane, è giovane.

Ora, leggendo quanto la critica ha scritto sullo spettacolo, mi è sembrato di scorgere una discrepanza: come se si fosse recensito un testo attentamente letto e studiato ed uno spettacolo visto forse – non per mia colpa – nelle sue non migliori condizioni, senza tenere conto del lungo, paziente, amoroso lavoro intermedio che era stato il primo e più laborioso indirizzo di regia.

Quando la sera del 3 di agosto le luci si riaccesero nella splendida piazza di San Miniato e fu esaurito il solito cerimoniale degli applausi e dei ringraziamenti, Giancarlo Giannini ed io corremmo da Silone e gli chiedemmo se era contento. Ci rispose di sì, con uno sguardo commosso, sornione, allegro e soddisfatto. «Allora va benissimo», gli rispondemmo tutti e due, e ci sentimmo ricompensati di un lungo e non sempre lieto sforzo. Silone era veramente contento. Fece tardi quella sera e il giorno dopo, improvvisamente e con mio grande piacere, mi dette del tu»[xiii].

Peraltro, ha raccontato di recente Giannini che sua la permanenza a San Miniato fu segnata da un incidente che lo colpì proprio la sera dell’anteprima per i critici e la stampa: una caduta dalla scaletta d’accesso al palco, alto quattro metri, che gli provocò il distacco della pleura. Nelle sere successive, l’attore salì ugualmente sul palco e recitò, sebbene, ha ricordato, con un filo di fiato[xiv].

L’Avventura di Errico Centofanti

Ancora più dal di dentro del Tsa, l’Avventura la racconta l’ex direttore (nonché tra i fondatori) dell’ente Errico Centofanti, tra i già ricordati “padri” della Perdonanza moderna[xv]. L’analisi è contenuta nel saggio Il mio Silone in cui Centofanti spiega:

Maturai la mia intensa venerazione per l’universo etico e letterario di Silone, venerazione che s’è conservata intatta, sebbene resti tuttora irrisolta, per me, la questione del perché egli non abbia poi voluto distinguere tra l’ottusa degenerazione burocratica del comunismo sovietico e la fondamentale anima illuminista del comunismo italiano, finendo col disperdere sia l’acqua sporca della componente fallimentare dell’esperienza sovietica sia il vigoroso bambino del comunismo italiano, il quale aveva saputo rendersi redentore della dignità nazionale nonché fondatore e tutore della nostra democrazia repubblicana.[xvi]

Racconta Centofanti: «In anni successivi, quando mi ritrovai, insieme con Peppino Giampaola e Luciano Fabiani[xvii], a guidare la fase fondativa e gli anni migliori del Teatro Stabile dell’Aquila, il mio rapporto con Silone si sviluppò lungo nuovi e fino ad allora inimmaginati sentieri: non più soltanto attraverso le pagine dei libri bensì mediante una diretta relazione interpersonale[xviii]. All’epoca (prima metà degli anni ’60), Silone era un po’ in ombra, soprattutto perché il Partito Comunista, considerandolo un “traditore”, gli negava il riconoscimento del prestigio artistico e intellettuale che invece assicurava ad altri, spesso meno meritevoli. Tanto per dirne una, ben pochi tenevano conto dell’opinione di Bertolt Brecht: «Silone è uno dei nostri migliori. FontamaraePane evino sono libri grandiosi».

Noi del Tsa contribuimmo a restituir luce a Silone in una cerchia ben più vasta di quella degli addetti ai lavori. Avevamo deciso che un permanente filone di lavoro del Tsa avrebbe dovuto riguardare la riproposta scenica degli abruzzesi resisi artefici di significativi apporti alla drammaturgia nazionale: dall’abate Galiani a D’Annunzio, da Luigi Antonelli a tanti altri. Fu Giampaola a proporre l’inserimento nella nostra lista anche di Silone, del quale rivelò a me e Fabiani l’esistenza d’un copione di cui noi non avevamo notizia.

Il giorno seguente, Giampaola mi portò il testo: uno smilzo quadernino stampato su carta poverissima nel 1945 nella Roma da poco liberata. Lo lessi una prima e una seconda volta quella stessa notte. Tra i copioni sui quali allora stavamo ragionando c’era Nekrassov, che Sartre aveva scritto nel 1955. Trattandosi di una divertente satira della dilagante scempiaggine anticomunista, ci pareva che la messinscena di Nekrassov, nel perdurante clima piuttosto intossicato della Guerra Fredda, avrebbe potuto contribuire a svelenire tante spigolosità del dibattito politico.

Nel leggere il dramma di Silone, mi venne in mente una frase di Camus: «Guardate Silone. Egli è radicalmente legato alla sua terra, eppure è talmente europeo». Infatti, vicenda e personaggi erano stati modellati su fatti e persone della terra di Silone, del nostro Abruzzo, trasfigurati artisticamente in un linguaggio e in un ragionare d’universale portata. La didascalia d’apertura ribadiva orgogliosamente l’ispirazione abruzzese: «L’azione si svolge nell’autunno del 1935 in Italia, nella zona di Abruzzo chiamata Marsica». E poi, introducendo la prima edizione a stampa (Baden, 1944), Silone aveva scritto: «Le persone di questo dramma sono uomini di oggi, ma «vengono da lontano e vanno lontano». Essi non si esauriscono nella cronaca.

Si trattava di Ed Egli si nascose composto in Svizzera negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale. Il suo impianto derivava da Pane e vino, il secondo dei grandi romanzi siloniani, e manifestava il respiro di una solenne e struggente orazione laica sulla Resistenza. Condensata dallo stesso autore in poche magistrali parole, questa è l’essenza dell’opera:

«Gli “uomini affamati e assetati di giustizia” sono ancora derisi perseguitati uccisi. Lo spirito per salvarsi è costretto ancora a nascondersi»[xix].

Centofanti restò folgorato da Ed Egli si nascose:

Quella mia notte di lettura e riflessione aveva evidenziato l’inutilità dell’andare troppo lontano: per proporre al nostro pubblico uno spettacolo degno dell’etichetta di “opera d’arte” e, nel contempo, capace d’indurre a pensare, a guardare criticamente dentro se stessi e intorno a sé, avremmo potuto attingere qualcosa d’assai più vicino a noi di quanto potessero esserlo Sartre e altri.

Il giorno dopo, dissi a Giampaola e Fabiani che Ed Egli si nascose poteva e doveva diventare una sorta di vivente manifesto programmatico del nostro modo d’intendere il teatro quale servizio pubblico impegnato nell’edificazione morale della Repubblica. Ragionammo sopra i pro e i contro, come sempre anche con punte al calor bianco, e infine fummo tutti d’accordo.

Messo in scena a Zurigo e Copenaghen nel 1945 e successivamente in altri Paesi, ma mai in Italia, Ed Egli si nascose fu il secondo allestimento di grande impegno produttivo dell’allora nascente Tsa e il primo di quelli trasposti dalla Rai sul piccolo schermo. Si debuttò a fine ottobre del 1965 e s’andò in giro attraverso l’Italia per diversi mesi, con “grande successo”, come suol dirsi e come veramente accadde, tra l’altro ospitati a Milano dal Piccolo Teatro, allora diretto dalla mitica coppia Grassi-Strehler. La regia fu di Giacomo Colli, la scenografia e i costumi di Mischa Scandella. In scena avevamo venti attori. Nel ruolo principale agiva il nostro “primo attore” di quegli anni, Achille Millo, che se n’è andato il 18 ottobre 2006, proprio nello stesso giorno in cui sto finendo di scrivere queste righe»[xx].

Dunque, inizia una stretta collaborazione tra Silone e il Tsa. «Sull’onda del successo di Ed Egli si nascose – prosegue Centofanti -, ci venne voglia di chiedere a Silone se egli volesse fare un passo più in là. Lo pregammo d’incontrarci per fare quattro chiacchiere a mo’ di bilancio dell’esperienza di Ed Egli si nascose. Aderì volentieri e anzi s’offrì d’invitarci a cena. Fissò l’appuntamento da Ranieri, in Via Mario de’ Fiori, uno dei migliori ristoranti romani. Tra specchiere dorate e tappezzerie di velluto rosso, il tutto un po’ appassito ma confortevole, la serata andò avanti piacevolmente. Parlammo di Uscita di sicurezza, da mesi al centro di un infuocato dibattito politico-culturale, e scambiammo qualche battuta sulle diversificate opinioni che ciascuno di noi nutriva a proposito della vigente stagione politica e di un po’ d’altri argomenti di varia umanità, finché giunse il momento giusto per mettere in tavola il nostro argomento principale: la proposta di scrivere un testo appositamente pensato per il Tsa.[xxi]

È, forse, in questo momento che L’Avventura di un povero cristiano prende la strada di assumere la forma di un testo per il teatro.

Conforme al suo stile sobrio e impassibile, Silone non imbandì il vaudeville con cui in casi del genere i più si mettono a menare il can per l’aia per lasciarsi adulare e sedurre. “Si potrebbe fare”, fu tutto quel che disse, dopo pochi secondi di silenziosa osservazione dei nostri sguardi. Aggiunse d’avere in mente un qualcosa che forse si sarebbe prestato a lasciarsi scrivere in forma di testo teatrale. Un qualcosa a proposito di Celestino V e della sua drammatica rinuncia al pontificato. Un qualcosa sull’eterno conflitto tra coscienza e potere. “Vi potrebbe interessare?”. Non ci fu bisogno d’un consulto, tra Giampaola, Fabiani e me. Un testo di Silone scritto apposta per noi lo avremmo messo in scena a qualunque costo, qualsiasi argomento avesse affrontato. I nostri “Sì, certamente” attraversarono le labbra all’unisono. Poi, parlammo brevemente dei prevedibili tempi d’esecuzione e, in linea di massima, della struttura drammaturgica e delle caratteristiche dei personaggi principali.[xxii]

Quella da Ranieri fu una sera d’inizio estate del 1966, proprio di quella estate del 1966 di cui abbiamo già ampiamente parlato.

Tre anni dopo, nell’estate del 1969 – racconta Centofanti -, andava in scena L’avventura d’un povero cristiano. L’edizione a stampa era uscita da Mondadori nel marzo del ’68. Ci volle un altro anno per prepararne la messinscena. Fu uno dei due spettacoli con cui simultaneamente, nell’estate del ‘69, offrimmo il nostro contributo alle epocali discussioni innescate dal ‘68. L’altro era il Coriolano di Shakespeare.

Silone, in quella sorta di autointervista, apparsa in diverse versioni, in vari anni e sotto differenti titolazioni, che per lo più è nota come Confiteor, rivolgendosi la domanda “A quali lettori pensi, di preferenza, quando scrivi?”, esprime la risposta che ogni professionista della scrittura, dello spettacolo e dell’arte in generale dovrebbe saper mettere in pratica quotidianamente: “A donne, a uomini inquieti, disposti anch’essi a riflettere”. Con i primi vent’anni del Tsa, noi, Giampaola, Fabiani e io, proprio per un pubblico “disposto a riflettere” abbiamo costantemente impostato il nostro lavoro.

In una fase in cui su tutto prevaleva l’urgenza di una profonda rigenerazione etica e morale, nel ‘69 proponevamo sulla scena due modelli di uomini strenuamente renitenti a qualsiasi compromesso con la propria coscienza: l’eroico papa del “gran rifiuto” e l’intransigente condottiero romano. Non per caso, Silone, nella battuta finale del suo dramma, mette sulle labbra di Fra Tommaso quest’allusione a Celestino V: “È probabile che torneranno di nuovo a offrirgli un compromesso. Non c’è dubbio che lui lo rifiuterà. E allora temo che l’uccideranno”. Il che sembra echeggiare il conclusivo elogio funebre dettato da Shakespeare per Coriolano: «Portate via di qui il suo corpo e lamentate la sua morte. Che sia considerato come il più nobile corpo che mai araldo abbia seguìto alla fossa funebre»[xxiii].

Fu magico quel connubio Silone-Tsa.

Dopo le settimane di prove all’Aquila – conclude Centofanti -, le nostre due compagnie partirono per la Toscana e il Piemonte: L’Avventura avrebbe debuttato a San Miniato e il Coriolano a Torino, luoghi abbastanza distanti dall’Aquila e l’uno dall’altro. Fu un’estate di convulsi andirivieni attraverso mezza Italia. Il 21 Luglio, quando Armstrong e Aldrin misero piede sulla Luna, stavo incollato davanti un televisore nell’atrio del Sitea di Torino, a portata di mano del centralino dell’hotel, che ogni tanto squillava per le chiamate da San Miniato.

Il debutto torinese, con Gigi Proietti[xxiv] nel ruolo del titolo e la regia di Antonio Calenda, andò magnificamente e altrettanto accadde a San Miniato, dove la nostra produzione aveva schierato un vero e proprio parterre du roi: regia di Valerio Zurlini, scenografia e costumi di Alberto Burri, musiche composte da Mario Zafred, i panni di Bonifacio VIII sulle monumentali spalle di Gianni Santuccio e, con geniale invenzione tutta di Zurlini, da noi entusiasticamente assecondata, l’allora ancor giovane Giancarlo Giannini nel ruolo dell’ottantaquattrenne Celestino, proposto al pubblico come smagliante immagine di giovanile splendore intellettuale.

Silone aveva assistito alle ultime prove e, quando andammo a salutarlo, dopo gli interminabili applausi, si lasciò andare a un semplice, lentissimo, intenso «Grazie!», che, stante la densa laconicità del suo abituale eloquio, equivaleva per noi a un estesissimo discorso gratulatorio.[xxv]

I mitici (e sfortunati) fondali di Burri

Alla realizzazione delle scene dell’Avventura – scrive Di Muzio – partecipò anche l’artista aquilano Sandro Visca[xxvi] come primo pittore scenografo. In quell’occasione l’incontro con Burri si tramutò presto in una vera amicizia, tanto che, anche per la passione che li accomunava per la caccia, si frequentarono in lunghe settimane venatorie sia in Umbria che sulle montagne d’Abruzzo.

A proposito di Burri, nel gennaio del 2004 scoppiò una polemica sui fondali dell’’Avventura di un povero cristiano che, dopo il riconoscimento del Ministero dei Beni Culturali, assunsero un valore inestimabile. Per qualche tempo tali fondali erano risultati scomparsi. «I tre fondali di Burri non sono scomparsi; sono stati restituiti nel 1972 all’autore su sua richiesta.

La precisazione arrivò da Federico Fiorenza.

Il maestro – racconta Fiorenza – ci chiese i tre fondali e noi riuscimmo a recuperarne due, perché l’altro era andato irrimediabilmente rovinato.

Ma perché i due fondali furono restituiti a Burri?

Sulla proprietà delle opere – ricorda Fiorenza – si ritenne che per tacito accordo i fondali dovessero rimanere di proprietà del maestro e non del Tsa. Comunque allora gli aquilani non capirono il valore artistico di queste opere, tanto che furono gettate in scantinati polverosi».

Ma la polemica non accennò a placarsi neanche dopo questo chiarimento. A gettare benzina sul fuoco, infatti, fu Luciano Fabiani il quale smentì che c’era stato un accordo tacito per la proprietà delle opere.

I fondali – disse Fabiani – dovevano rimanere al Tsa; oggi rappresenterebbero un patrimonio della struttura teatrale e dell’intera città dell’Aquila.

In realtà, secondo quanto scritto su Tsa Notizie del dicembre 1969 i tre grandi pannelli furono donati al Museo Nazionale d’Abruzzo. Il sovrintendente, architetto Mario Moretti, cercò di curare la sistemazione della scenografia dell’Avventura in un salone del Forte Spagnolo per essere mostrata al pubblico, ma i tre pannelli restarono in giacenza per tantissimi anni.[xxvii]

Ecco come ha ricostruito, di recente, la questione Sandro Visca sul periodico Vario:

[…] Nel quadro di una ripresa di interesse sui lavori realizzati in vita da Burri per il teatro, proprio in occasione del ripristino del Teatro Continuo nel Parco Sempione di Milano – ad opera del Comune di quella città, della Triennale e dello Studio nctm, in collaborazione con la Fondazione Burri – è tornata alla luce anche l’azione svolta dal pittore abruzzese Sandro Visca, che a partire dal 1969 aveva collaborato con Burri per la realizzazione delle scene da lui concepite per L’avventura di un povero cristiano, dramma teatrale tratto dal celebre libro di Ignazio Silone, prodotto dal Tsa e messo in scena prima a San Miniato al Tedesco e poi replicato all’Aquila, dove peraltro a Burri era già stato dedicato un significativo “omaggio” nel 1962 nell’ambito della rassegna Alternative Attuali; curata da Antonio Bandera ed Enrico Crispolti, presso il Castello della città.

Delle tre scene concepite da Burri e realizzate con la collaborazione di Visca ne è materialmente sopravvissuta solo una, oggi conservata presso gli ex Seccatoi del Tabacco di Città di Castello, attuale sede dei grandi cicli dipinti da Burri dal 1973 in poi. Le alte grandi installazioni sono andate perdute e non se ne sarebbe più parlato se l’occasione del centenario della sua nascita non ci avesse indotto a farlo grazie anche alla preziosa testimonianza resa da Visca stesso che, avendo stretto un sodalizio di amicizia con il Maestro in quella esperienza condivisa, ne ha ricostruito interamente la vicenda.

Ma ecco la significativa versione dei fatti dalla viva voce di Visca: «Nell’estate del 1969 fui chiamato da Luciano Fabiani, allora direttore del Tsa (Teatro Stabile dell’Aquila) per realizzare le scene di Alberto Burri progettate dal maestro dell’informale per lo spettacolo di Silone (regia di Valerio Zurlini, musiche di Mario Zafred, attori principali Giancarlo Giannini e Gianni Santuccio).

Il lavoro richiesto consisteva nella realizzazione di tre fondali di dieci metri per sette metri e mezzo di altezza. Due fondali, uno bianco e uno rosso, dovevano essere eseguiti con materiale plastico combustibile, il terzo con varie tele di sacco. Le due combustioni le realizzai presso uno spazio della Fiera di Milano mentre per il sacco mi fu messo a disposizione il palcoscenico del Teatro Comunale dell’Aquila. Tra Milano e l’Aquila lavorai per più di un mese, giorno e notte, senza mai dormire.

Dopo la prima rappresentazione a San Miniato in occasione della XXIV Festa del Teatro e dopo due repliche all’Aquila presso il Teatro Comunale, Burri decise di donare le scene alla città dell’Aquila a patto che si istituisse un piccolo Museo Burri comprendente, oltre ai tre fondali che avevo realizzato, i tre bozzetti originali e i progetti materici dei costumi. La motivazione di Burri scaturì dalla considerazione che lo spettacolo era collegato totalmente all’Abruzzo: il Tsa dell’Aquila, il testo dell’abruzzese Ignazio Silone e la leggendaria avventura di Celestino V, eremita del Morrone e protagonista del gran rifiuto.

Con Luciano Fabiani mi adoperai in tutti i modi a cercare una soluzione idonea per istituire il Museo Burri all’Aquila ma un locale idoneo a contenere i tre i fondali così grandi non si riuscì a trovare. Non avendo altra scelta, decidemmo di chiedere temporaneamente ospitalità presso il Forte spagnolo dell’Aquila. Il soprintendente alla Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’Abruzzo, architetto Mario Moretti, ci accolse con garbata amichevolezza e benevolmente ci consentì di occupare uno dei bastioni del Forte spagnolo adatto alla misura dei fondali. E così facemmo.

Dopo qualche anno la prematura scomparsa dell’architetto Moretti segnò l’inizio della fine delle scene di Burri. Il successore del soprintendente Moretti, la dottoressa Graziana Barbato, non solo non ritenne opportuna la conservazione delle scene di Burri nel Forte spagnolo, ma ordinò di rimuoverle dai supporti di sostegno per gettarle tra i detriti di uno dei cunicoli sotterranei del Forte, ancora non restaurato e in pieno degrado. Tuttavia la cosa più grave fu che dopo nostre molteplici richieste non accordò un incontro né a Luciano Fabiani, né tanto meno a me perché potessi visionare le scene e valutarne lo stato in cui versavano. Nonostante pressanti sollecitazioni, per alcuni anni il Tsa non riuscì a riappropriarsi delle tre scenografie.

Solo con l’avvicendamento della nuova soprintendente, la dottoressa Margherita Asso, riuscimmo a recuperare le scene e toglierle dalla penosa condizione in cui erano state abbandonate. Purtroppo la combustione rossa era irrimediabilmente distrutta, in pratica ridotta a brandelli, mentre la combustione bianca e quella di sacco, nonostante malridotte dall’umidità e quasi seppellite dai detriti, furono ritirate e trasportate presso gli uffici del Tsa; al penoso recupero delle scene partecipammo io e Luciano Fabiani.

Nel 1981, in una accorata telefonata, Burri mi pregò di restaurargli il fondale di sacco perché aveva necessità di esporlo in una mostra personale a Pesaro dedicata ai suoi lavori teatrali. A chiusura della mostra il fondale di sacco non fu riconsegnato al Tsa ma fu trattenuto dallo stesso Burri che lo riportò a Città di Castello. Riguardo alla combustione bianca, dopo anni di insistenze da parte mia presso la direzione del Tsa perché fosse riconsegnata a Burri, tra bugie e verità non se ne è saputo più nulla.

La gravità di questa storia ingloriosa sta nel fatto che i tre fondali, a parte quello di sacco che insieme a Errico Centofanti (a quel tempo direttore del Tsa) portai a Pesaro, non sono mai stati riconsegnati a Burri. Di tutto questo ne sono testimone per le ripetute lamentele fattemi da Burri prima che morisse e recentemente confermate dall’architetto Sarteanesi della Fondazione Albizzini che oggi conserva solo quella di sacco presso gli Ex Essiccatoi dei Tabacchi di Città di Castello, insieme a tutte le opere donate da Burri.

In un articolo non firmato del Messaggero dell’Aquila, uscito venerdì 1 dicembre 1989, l’articolista pone un’interrogazione al sindaco dell’Aquila Enzo Lombardi (allora Commissario straordinario del Tsa) del perché della decisione di riconsegnare a Burri le scene, come in precedenza lo stesso sindaco aveva dichiarato ufficialmente, quando le stesse erano state donate da Burri al Tsa.

Non si è mai capito perché il Tsa non sia stato capace di gestire questa storia incresciosa sottraendo alla città dell’Aquila un patrimonio di inestimabile valore, ambito dai più importanti musei d’arte moderna del mondo.

Lo scenario di questo giallo non sarebbe completo se non dicessi che Burri, grazie alle sollecitazioni del regista Valerio Zurlini, progettò le scene per il Tsa gratuitamente e che il sottoscritto fu impegnato per due mesi alla realizzazione e alla gestione delle scene durante le varie repliche dello spettacolo, senza alcun compenso, e tantomeno senza nessun aiuto di altri scenotecnici nella realizzazione, come erroneamente o in mala fede è stato pubblicato sia sulla locandina del Tsa riguardante lo spettacolo, e in qualche dubbia pubblicazione editata di recente».

Fin qui la dichiarazione testimoniale di Sandro Visca. Di quei lavori purtroppo andati perduti, fortunatamente tuttavia esistono i bozzetti preparatori realizzati dal Maestro, che sono conservati presso la Fondazione nel Museo Burri di Palazzo Albizzini a Città di Castello. Essi, insieme alla documentazione fotografica delle scenografie dello spettacolo, consentono di conoscere e fruire ancora oggi di quelle importanti opere.[xxviii]

Quell’unica replica all’Aquila

Si è creata una gran confusione, nel corso di questi oltre cinquant’anni dal debutto, su due questioni intricate e intriganti: se si fece o meno una replica all’Aquila dell’Avventura e sul perché, dopo l’iniziale strepitoso successo, L’avventura di un povero cristiano non venne poi riproposto nelle principali piazze italiane.

Sulla replica aquilana, a dispetto delle voci che asserivano il contrario, abbiamo letto come lo stesso Silone[xxix] la citi come avvenuta.

Così Di Muzio ricostruisce come stanno davvero le cose:

Nel corso degli ultimi anni, dopo la pubblicazione del mio volume[xxx], si è dipanata la matassa sullo spettacolo L’Avventura di un povero cristiano messo in scena dal 3 al 9 agosto del 1969 a San Miniato a Pisa. Lo spettacolo di Zurlini non fu ripreso in autunno nella stagione del Tsa, ma fu messa in scena soltanto una sola rappresentazione all’Aquila, il 10 agosto, peraltro uno spettacolo inizialmente previsto il 14 agosto nell’ambito delle Feste teatrali estive organizzate dall’Azienda di Soggiorno e Turismo nel fossato del Forte Spagnolo.

Su questa rappresentazione al Comunale, peraltro alla presenza dell’allora ministro aquilano Lorenzo Natali, c’è sempre stato un alone di mistero: nessuna recensione dettagliata (solo un colonnino di poche righe e molto generico sul Tempo del 12 agosto siglato da Anton Maria Centofanti) e nessuna foto di scena a fronte di numerosi articoli e foto sui giornali di tutto il mondo per le rappresentazioni in Prima mondiale a San Miniato. Soltanto un paio di “strilli” sempre sul quotidiano Il Tempo e una grande foto del cast sulle scale del Comunale il giorno prima della rappresentazione. Anche i protagonisti, tranne Paolo Rubei («Lo ricordo benissimo, il teatro era pieno come un uovo. Si doveva fare al fossato del Forte il 14, ma fu rappresentato al Comunale il 10, una sola volta. Successivamente ci fu un “remake”, ma con altri protagonisti e altri attori al di fuori del Tsa») aiuto regista di Zurlini, insieme con Claudio Dal Pozzolo, non ricordavano questo spettacolo all’Aquila.

Come mai? Il “mistero” è stato chiarito nell’aprile scorso grazie anche alla collaborazione e alla ricerca nella Biblioteca dell’Aquila “Tommasi” dell’impiegata Frediana Jukic (che ha “spulciato” una raccolta di articoli su Silone composta da una decina di faldoni) e all’aiuto della direttrice della biblioteca “De Meis” di Chieti, Antonella Visca che ha messo a disposizione la collezione dei quotidiani e dei settimanali su questo spettacolo.

Il colpo di scena è arrivato grazie a un articolo scritto sulla Gazzetta di Pescara nel marzo del 1970 e ripreso dal settimanale aquilano AquilaSette nell’aprile dello stesso anno[xxxi] dal titolo: Ignazio Silone in Tribunale, vuole un milione dal Tsa. «L’autore di Avventura del povero cristiano piantato in asso dall’attore da lui imposto, Giancarlo Giannini, gira la colpa al Teatro Stabile da cui pretende il versamento di una penale». Lo scrittore ruppe i ponti con gli aquilani, anche se la sua vertenza non ebbe seguito, ma lui non volle mai risolvere la questione in via bonaria. Si arrivò a una vera e propria causa lavorativa in sede di tribunale civile, però poi si arrivò a una specie di transazione.

Il nodo era che Giannini fu scritturato soltanto per il Festival di San Miniato e Silone accusò il Tsa di non sapere nulla di questa vicenda, mentre i vertici dello Stabile imputarono la questione allo scrittore, a loro dire, che fu il vero responsabile di questo contratto a termine in quanto Silone scelse espressamente Giannini mediante il regista Zurlini.

Il problema è che il Tsa aveva già programmato la ripresa nelle varie città nel circuito in abbonamento, ma nessuno riuscì a convincere Giannini e il cast a riproporre lo spettacolo in quanto stava riprendendo le riprese di Dramma della gelosia di Ettore Scola che nei cinema sarebbe uscito il 30 aprile 1970.

Da qui lo scontro tra Silone e lo Stabile che dovette disdire tutte le piazze, visto peraltro che non c’era alcuna possibilità di sostituire Giannini e altri componenti del cast, in quanto le repliche in Italia erano legate proprio alla presenza del popolare artista.

A questo punto l’unico spettacolo proposto al Comunale dell’Aquila dopo San Miniato, peraltro con una scenografia molto rimaneggiata (a detta di Franco Troiani scenografo del Tsa dal 1967 e che come “giovane garzone” aiutò l’artista Sandro Visca nel realizzare i “fondali Burri”, il materiale “in pvc e la parti tridimensionali non erano agevoli sia da trasportare che nel conservarli “accartocciati””), fu anticipato proprio al 10 agosto per “legarlo” ai termini del contratto di Giannini.

Sulla non ripresa dello spettacolo si è sempre parlato e scritto di “questioni tecniche”, ma su questa rappresentazione aquilana e, in particolare sul seguito della vicenda, fu calato un “velo” specialmente nel capoluogo. A ritirarla fuori dopo otto mesi, nel 1970, fu, appunto, proprio la Gazzetta di Pescara (all’epoca la città adriatica era “acerrima nemica” dell’Aquila anche sul piano culturale-istituzionale) che accusò il Tsa di questa “brutta figura agli occhi del mondo teatrale nazionale”. Aquilasette, ovviamente “difensore d’ufficio” del capoluogo e del Tsa, scaricò tutte le colpe su Silone “che si è rifiutato espressamente di discutere da uomo a uomo, cioè in situazione paritaria come cittadini uguali davanti alla legge e ha preferito in definitiva adire alle vie legali […]. Su Giannini e su gran parte del cast il suo parere era vincolante sulla convenzione e questo lui non lo ha mai detto”.

“Purtroppo – ricorda Errico Centofanti, all’epoca nel ruolo di direttore del Tsa – Silone si adirò molto per questa cosa anche se poi non ci fu nessun seguito di tipo giudiziario. In realtà lo scrittore ben sapeva che Giannini aveva un contratto a termine, ma lui lo impose lo stesso e si arrivò alla rottura e allo stop della rappresentazione dopo San Miniato. Un vero peccato perché la collaborazione era iniziata bene con Ed Egli si nascose che riscosse successo ovunque. Ma da allora, purtroppo, e questo fu un grosso rammarico, con Silone le porte del Tsa si chiusero definitivamente”.

L’Avventura di Federico Fiorenza

Alla luce delle scoperte fatte da Di Muzio, abbiamo chiesto al già citato Federico Fiorenza, deus ex machina del Tsa per quarant’anni, una testimonianza per ripercorrere tutta la vicenda essendone stato uno dei principali protagonisti. E quello di Fiorenza è un “romanzo” nel romanzo:

Nel mese di maggio del 1969, Giuseppe Giampaola e Luciano Fabiani avevano preso contatti con don Giancarlo Ruggini, ideatore della Festa del Teatro di San Miniato, che voleva assolutamente mettere in scena L’Avventura di un povero cristiano per l’estate di quell’anno. Don Ruggini aveva dato loro assicurazione del finanziamento e programmazione dell’Avventura come spettacolo centrale della Festa, con un contratto vantaggioso ma con una serie di obblighi di realizzazione, dalla regia alle musiche.

Incontrato Silone a Roma, certi della sua disponibilità anche per il rapporto precedente nato con l’allestimento dello spettacolo di grande successo dal suo romanzo Ed Egli si nascose, gli comunicarono che l’adattamento e riduzione dal romanzo per lo spettacolo sarebbe stato a cura del maestro Valerio Zurlini, che ne avrebbe curato la regia, con scelte insindacabili del cast e dei collaboratori artistici. Silone pretese che lo spettacolo avesse però una programmazione lunga e che ci fosse sempre stato Giancarlo Giannini come protagonista. Questo sarà il motivo della causa intentata da Silone contro il Tsa dopo l’ultima replica del 10 agosto al Teatro Comunale dell’Aquila, dove finì la programmazione per gli impegni di Giannini presi come co-protagonista del film Dramma della Gelosia di Ettore Scola con Monica Vitti e Marcello Mastroianni; il successivo Mimì metallurgico ferito nell’onore, nato come progetto a San Miniato, lo rese protagonista nella sua splendida carriera.

Ma veniamo all’allestimento dello spettacolo. Avuto a giugno l’assenso di Silone, iniziarono gli incontri di Fabiani e Giampaola con Zurlini che propose a sorpresa il giovane Giannini quale interprete di Celestino e a fine giugno la “locandina” dello spettacolo era completata: scene e costumi di Alberto Burri, musiche di Mario Zafred e altri interpreti di fama come Gianni Santuccio e Alfredo Bianchini oltre a giovani che erano con il Tsa come Carlo Valli, Carla Tatò e Donato Castellaneta. Il Tsa in quella estate produceva a luglio anche il Coriolano di Shakespeare al Teatro Romano di Verona (protagonisti: Gigi Proietti, Mario Scaccia, Giampiero Fortebraccio, Antonio Pierfederici, Virgilio Zernitz, Roberto Herlitzka e attori che saranno per molti anni nel Tsa, regia di Antonio Calenda) per una stagione estiva che era molto impegnativa per l’ente.

Fabiani e Giampaola, che decidevano sempre d’accordo funzioni e mansioni dei collaboratori, mi affidarono gli allestimenti prima con un contratto privato con il “Civis” di Roma per il Coriolano amministrato da Oliviero Franchi, e poi con la mia assunzione al Tsa dal 1 giugno, stesso rapporto dei già dipendenti Elio Conti (ruolo amministratore delle Compagnie), e dello stesso Franchi (ufficio amministrazione in sede). Il ruolo di assistente alla regia di Zurlini per il Tsa venne affidato a Paolo Rubei; scene Laboratorio scenotecnico del Tsa (primo pittore scenografo per lo spettacolo Sandro Visca, assistente pittore decoratore Franco Troiani), oltre naturalmente tutto lo staff tecnico del Tsa in particolare Guido Mariani per le luci, Arnaldo Formisani macchinista, Lucia Zincone capo sarta, rammentatore Gigliola Girola, calzature Antonio Figlioli, attrezzista Filideo Chiaravalle e le romane “Attrezzeria Rancati” e “Sartoria Jacobelli”.

Il maestro Burri ai primi di luglio consegnò a Zurlini, che li mise a disposizione del Tsa all’Aquila al Teatro Comunale, i tre bozzetti delle scene di cm. 17,5×35 e otto fogli di cartoncino con disegno e stoffe dei costumi, otto dorati per i cardinali, il bianco per Celestino, i due neri per Santuccio e Bianchini, i sai per i fraticelli e gli altri personaggi. I bozzetti delle scene erano un sacco incordato con una croce nera delimitata da cordini, una plastica bianca con altra sopra trasparente con bruciatura come un camino (o immagine di pube) e una rossa con un cerchio in mezzo a rilievo con plastica scaldata come un bordo vulcano grezzo. Dai bozzetti dovevano essere realizzati, nel disegno di regia e di scenografia, tre fondali appesi in fondo al palcoscenico che aveva 10 metri di larghezza per 7,5 metri di altezza. In un incontro con Zurlini fui presentato da Fabiani come responsabile per il Tsa dell’allestimento al Maestro Burri e iniziò con lui la prima disanima dei problemi che si dovevano risolvere sia per i materiali usati che per la scala delle dimensioni dai bozzetti ai fondali, dalla tessitura della stoffa del costume di Giannini in bozzetto a quello definitivo, dai cordini usati nei bozzetti alle dimensioni nei fondali che diventavano gomene. Nacque in quei primi contatti con il Maestro un’amicizia e un rapporto che è durato nel tempo, nella sua dimora in montagna a Trestina, a Città di Castello con i suoi cari amici di prigionia; conservo ancora due sue opere che mi ha donato, una esposta al Museo Remo Brindisi.

I laboratori scenotecnici con i quali avevamo rapporti non erano in grado di realizzare le scene per i materiali usati; il Laboratorio del Tsa avrebbe costruito le sole scene di base; Burri, a dire il vero, era molto preoccupato della realizzazione delle scene per le dimensioni e per l’uso dei materiali, ma era chiaro che il suo sarebbe stato un intervento sui fondali finiti. Per esempio nel bozzetto di un fondale aveva usato i sacchi di iuta dello zucchero come base, cuciti con cordino. I fondali in tele di plastica erano pezzi di produzioni della Montedison di Milano. Burri mi disse che poteva intervenire solo sui fondali composti ma dovevo risolvere la costruzione degli stessi. Il rapporto con Burri diveniva sempre più amichevole e confidenziale: mi aveva messo a disposizione la sua auto più veloce della mia e viaggiavamo da Roma a Firenze a Prato a San Miniato per le prime ricerche di soluzione. Gli chiesi se potevo proporgli collaborazioni esterne al Tsa dove operava un geniale pittore decoratore, Franco Troiani, che però non poteva da solo affrontare le difficoltà date dalle dimensioni e dai materiali delle scene. Avevo una costante frequentazione del mondo degli artisti, dei pittori, dal contatto costante con mio zio, il maestro Remo Brindisi, e tra gli artisti abruzzesi potevo vantare amicizia con Berardino Marinucci e, allora, con Sandro Visca, che veniva spesso con me a teatro, alle prime, in trasferte di lavoro.

Avevo dato a Visca, di riflesso, ampia conoscenza del mio ambiente di lavoro e parte delle amicizie comuni del Tsa. Di Visca conoscevo la straordinaria abilità e tecnica che impiegava nella produzione delle sue opere, la sua assoluta dimestichezza con il materico. Parlai di lui a Burri quale possibile collaboratore e solutore dei problemi di realizzazione dei tre fondali. Lo presentai a Burri e fu la soluzione dei problemi. Visca disse al Maestro che, in particolare per il fondale in stoffa, si poteva risolvere per le dimensioni sia con i materiali che con il pittorico. Visca fu messo in contratto da Fabiani per la realizzazione delle tre scene.

Nel frattempo avevamo chiesto, tramite il maestro, all’ingegner Giorgio Valerio, allora presidente della Montedison, se potevamo avere collaborazione dal settore plastica per avere i fogli stampati in unica dimensione come quella dei fondali. Ci fu garantita la disponibilità e la preparazione di tre fogli interi di plastiche necessarie alla realizzazione delle due scene con un riferimento tecnico messo a disposizione dall’Azienda; partirono per Milano il pittore Visca e il decoratore Troiani e nel laboratorio di Milano, credo dell’Accademia, finirono per realizzare i due fondali in plastica.

Avevano già realizzato la prima scena, quella del sacco, sul palcoscenico del Teatro Comunale dell’Aquila con grande preoccupazione delle signorine Tetè, le custodi, per le nubi causate dall’uso di compressore e verniciatore.

Nel frattempo proseguivano le prove a San Miniato con molta preoccupazione di Zurlini sulla disponibilità al 30 luglio di tutto il necessario per scene, costumi e attrezzeria che riteneva impossibile. Ne nacque una scommessa tra me ed il regista testimone don Ruggini; se entro tale data non avesse avuto scene, costumi, attrezzeria avrei perso centomilalire da lasciare in assegno sul suo tavolino di regia!

Il 26 luglio con Elio Conti montammo 4 tende militari nella piazza sottostante quella del festival, un gruppo di sarte guidate da Lucia Zincone e Nanda Cecchini al lavoro per i costumi, i macchinisti e gli attrezzisti a preparare palcoscenico e materiali di scena. Il 29 partì un camion da Milano per le scene dal laboratorio, Nino De Nuntis con il nostro furgone dall’Aquila per la scena del sacco, le scarpe di Figlioli, ultimi pezzi di scena di base dal Laboratorio Tsa, passaggio a Roma dalla ditta Rancati per attrezzeria restante; la sera, a inizio delle prove a San Miniato, c’era tutto il necessario per la prima prova antegenerale.

Zurlini mi negava il pagamento della scommessa persa e intervenne don Ruggini: lo obbligò a firmare l’assegno che, cambiato, fu da me trasformato in due “Chivas” per la regia e una cena per tutto lo staff tecnico.

Alla generale, Zurlini obbligò Visca e me a vestirci da fraticelli e a far parte della processione iniziale. Giannini era irritato dai peletti creati dal suo costume di lana grezza che gli creavano problemi di respirazione ma si risolse la crisi dopo un intervento di Nanda Cecchini, la nostra maestra di sartoria.

Alla prima del 3 agosto un tutto esaurito come per le repliche fino al termine delle recite il 9 agosto. Alla prima, la mia amica giornalista del Franfurter Allgemeine Zeitung mi chiese se avevo un posto disponibile per una sua ospite e trovammo una soluzione in prima fila laterale di destra dove assistette allo spettacolo Lina Wertmüller che, dopo lo spettacolo, a cena al Miravalle propose a Giannini il ruolo in “Mimì metallurgico”.

Questo splendido spettacolo, citato ancora nelle migliori recensioni del teatro nazionale, oggetto di convegni, riallestimenti vari, esempio e memoria della vita di Celestino V e del suo “gran rifiuto”, ricordato anche per la fine indecorosa delle scene di Burri, prima appese in un bastione del Forte Spagnolo, poi abbandonate in un magazzino, poi due portate da me con il Ford Transit del Tsa alle Manifatture del Tabacco a Città di Castello ed al Museo Burri, oggi scomparse; citato per la causa di Silone al Tsa per un risarcimento milionario per la mancata prosecuzione delle recite per la indisponibilità di Giannini, resta una delle scelte e degli allestimenti più noti e di prestigio di quella stagione del Tsa che mi piace ricordare per la passione, la creatività, e il grande impegno creativo e personale dei già citati Luciano e Peppino ed Errico Centofanti, protagonisti del teatro e non solo, e i compagni di lavoro e amici cari, Elio ed Oliviero, che ne sono stati come tutti quelli che ci sono, colonne portanti del Tsa.

* [Estratto dal libro Angelo De Nicola, Dante, Silone e la Perdonanza, One Group Edizioni, L’Aquila, 2021, pp. 185-206]



[i]. A. Di Muzio, Il teatro all’Aquila e in Abruzzo, Tsa, cronaca e storia, Ricerche&Redazioni, Teramo 2015, pagg. 168-169.
[ii]. Giacomo Colli (Brescia, 1928-Desenzano del Garda, 22 aprile 1994) è stato un registaitaliano. Ha collaborato con il Teatro Stabile di Torino e con gli Stabili dell’Aquila, Trieste, Napoli, Palermo e Catania, inscenando opere di Goldoni e di altri autori italiani e stranieri.[iii]. C. Augias, Dal dialogo nasce la speranza, Sipario, 2 novembre 1965.
[iv]. R. Tian, Un dramma di Ignazio Silone al Teatro Stabile dell’Aquila, Il Secolo XIX, 3 novembre 1965.
[v]. Vedi anche a pag. 151.
[vi]. A. Di Muzio, Il teatro all’Aquila e in Abruzzo, Tsa, cronaca e storia, Ricerche&Redazioni, Teramo 2015, pagg. 168-169.[vii]. B. Vespa, Il Tempo cronaca dell’Aquila, 29 aprile 1966.
[viii]. Ibidem, pagg. 171-172.
[ix]. I. Silone, Il Dramma, ILTE Editore, Anno 45 – N. 12 – settembre 1969, pag. 27.
[x]. R. Tian, L’utopia come anima della storia, Il Messaggero, Roma, 5 agosto 1969, in Il teatro all’Aquila e in Abruzzo, Tsa, cronaca e storia, Ricerche&Redazioni, Teramo 2015, pag. 241.
[xi]. W. Waever, Un Celestino convincente e commovente, The Financial Times, London, 18 agosto 1969 in Il teatro all’Aquila e in Abruzzo, Tsa, cronaca e storia, Ricerche&Redazioni, Teramo 2015, pagg. 241-242.
[xii]. M. Von Zitzewitz, La sconcertante attualità di Celestino, Die Welt, 16 Agosto 1969, in Il teatro all’Aquila e in Abruzzo, Tsa, cronaca e storia, Ricerche&Redazioni, Teramo 2015, pag. 242.
[xiii]. V. Zurlini, Un venticinquenne per il venerando Celestino quinto, in Il Dramma, ILTE Editore, Anno 45 – N. 12 – settembre 1969, pag. 27. In realtà Giannini ha 27 anni.
[xiv]. Cfr. sul web al likhttp://ladomenicaonline.diocesisanminiato.it/dal-territorio/482-giannini-strega-san-miniato.html.
[xv]. Vedi pag. 32.
[xvi]. E. Centofanti, Regione Abruzzo, periodico del Consiglio Regionale, 19 Ottobre 2006 / poi nel mio libro sul Tsa uscito nel 2013: Cinquant’anni dopo: Azioni e divagazioni da con in per sopra sotto attraverso il Tsa.
[xvii]. Luciano Fabiani (L’Aquila, 26 novembre 1930 – L’Aquila, 16 giugno 2012) è stato tra i padri costituenti della Regione Abruzzo. Assessore al bilancio e vicepresidente della Giunta regionale nel corso delle prima legislatura, di nuovo consigliere dal 1980 al 1985, quando ricoprì il ruolo di vicepresidente dell’Assemblea regionale. Personalità di spicco della Democrazia cristiana, uomo di cultura (a lui si deve la nascita del Teatro Stabile dell’Aquila e dell’Accademia di Belle Arti) Fabiani ha lasciato un segno importante in Abruzzo.
[xviii]. Centofanti nel suo saggio scrive: «Silone ero andato spesso a incontrarlo, nel corso del lavoro di scrittura dell’Avventura: nella Biblioteca Provinciale dell’Aquila, all’Hotel Montecagno di Rocca di Cambio, nella sua abitazione romana, al 36 di Via di Villa Ricotti, a due passi da Piazza Bologna».
[xix]. Ibidem.
[xx]. Ibidem.
[xxi]. Ibidem.
[xxii]. Ibidem.
[xxiii]. Ibidem.
[xxiv]. Gigi Proietti, all’anagrafe Luigi Proietti (Roma, 2 novembre 1940-Roma, 2 novembre 2020), è stato un attore, comico, doppiatore, cabarettista, conduttore televisivo, regista, cantante e direttore artistico italiano.
[xxv]. Ibidem.
[xxvi]. Sandro Visca (L’Aquila 1944), giovanissimo, nel 1962, espone due disegni alla Biennale Nazionale del Disegno a Recoaro Terme, accanto ad artisti quali Valerio Adami, Felice Casorati, Giuseppe Capogrossi, Renato Guttuso e Giorgio Morandi. Molteplici sono le esposizioni collettive alle quali partecipa e le personali presentate in Italia e all’estero. Fra queste si annoverano la XV Triennale Internazionale di Milano del 1973 per la sezione italiana Lo spazio vuoto dell’habitat, le Alternative attuali all’Aquila nel 1987, Texitilia/Pittura tessuta a Vicenza nel 1991. Fra le personali, nel secondo millennio, rilevante è “In itinere”, dove espone un unico arazzo cucito, lungo metri 34 e alto 50 cm, che viene installato alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Ricci a Macerata; al 2008 risale la retrospettiva Visca opere 1962-2008, allestita al Museo d’Arte Moderna “Vittoria Colonna” di Pescara. Nel 1975 realizza Un cuore rosso sul Gran Sasso, film d’arte in 16 millimetri, opera performativa, segnica e corale, che viene completato e presentato in edizione digitale nel 2011 a Santo Stefano di Sessanio, come Evento Speciale della LIV Biennale di Venezia.
[xxvii]. A. Di Muzio, Il teatro all’Aquila e in Abruzzo, Tsa, cronaca e storia, Ricerche&Redazioni, Teramo 2015, pagg. 241-243.
[xxviii]. B. Corà, Alla ricerca dei fondali perduti, Vario, dicembre 2015, pagg. 20-25.
[xxix]. Vedi a pag. 188.
[xxx]. A. Di Muzio, Il teatro all’Aquila e in Abruzzo, Tsa, cronaca e storia, Ricerche&Redazioni, Teramo 2015.
[xxxi]. AquilaSette, anno IV n. 14 del 9 aprile 1970.