(Tavola rotonda telematica, 2 giugno 2020)
Cafone: il potere della parola viva e essenziale *
di Ester Lidia Cicchetti
Oggi festeggiamo la Repubblica italiana, una celebrazione possibile grazie a uomini dallo spessore intellettuale e umano come Silone, che è stato protagonista della “grande” storia, che ha contribuito a cambiarne il corso attraverso l’esempio del suo modo di agire, sempre improntato agli ideali della discrezione, della misura e del rifiuto di ogni esibizionismo.
Nel suo impegno civile ha scelto coscientemente di pronunciare degli “scomodi” no, piuttosto che dei facili “sì” che gli avrebbero reso la vita molto più semplice e meno dolorosa; ha costantemente portato avanti la lotta per i suoi ideali avvalendosi di armi ancor più potenti: il ragionamento e lo spirito critico, supportati dall’uso “essenziale” della parola, da una solida fede nel senso della letteratura, con la certezza che i valori affiorino e le idee giuste si affermino; una letteratura intesa come luogo mobile e aperto alla coscienza e che sveglia la coscienza. Ricordiamo infatti che Fontamara è costata al regime fascista più di mille sconfitte, e che dovranno passare ben 17 anni prima che il romanzo venga pubblicato in Italia. Il segreto del successo di Fontamara è che questo paesino inventato dell’Abruzzo costituisce una realtà in tutte le nazioni. Se il romanzo ha un merito è quello di aver rivelato l’universalità del cafone: la sofferenza del contadino povero è la stessa in tutto il mondo.
La situazione dell’uomo per Silone si sviluppa intorno a pochi elementi: lo sfruttamento, l’oppressione dei potenti sui deboli, dei ricchi sui poveri. All’origine della condizione umana si situa il dolore universale dell’uomo. Fontamara è un libro che si confronta e affronta la realtà e mette al centro dell’attenzione i problemi dell’epoca siloniana: la questione contadina e il Fascismo. È un romanzo provocatore che vuole proporre una doppia polemica: contro la retorica del «bello scrivere» e contro il folclore meridionale.
Il romanzo racconta quindi l’oppressione e il tentativo di ribellione della comunità dei fontamaresi: la denuncia della durezza delle loro condizioni di vita, il frustrante rapporto con lo Stato e soprattutto il peggioramento della loro situazione dopo l’avvento del Fascismo.
Il tema principale dell’opera, come si accennava e come Silone sottolinea nella prefazione, è l’«universalità del cafone»: i fontamaresi sono l’incarnazione di tutti i cafoni del mondo. È proprio l’idea di far comunicare l’alto con il basso, ciò che è moderno con l’arcaico, ciò che è semplice con ciò che è complesso che conduce Fontamara a una diffusione mondiale: tutti i cafoni del mondo si capiscono, sebbene non parlino la stessa lingua, perché il linguaggio dei poveri è lo stesso ovunque. La sofferenza del contadino è sempre la stessa: sotto gli stracci del folclore si trova la stessa creatura umana che suda sangue per un lavoro bestiale, che è oppressa, sfruttata, schernita dalle autorità[1].
Ma chi sono i cafoni?
L’origine del termine è sconosciuta e sono state avanzate varie ipotesi in merito[2]. Silone si appropria del termine, ma lo impiega con un nuovo significato: il termine “cafone” in Fontamara è usato, in realtà, in modo rivendicativo, il disprezzo è trasformato in orgoglio[3]. Ha quindi una connotazione positiva, proiettata nel futuro:
Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore[4].
Per Silone i cafoni sono i contadini poveri, gli ignoranti, ingannati dalle autorità, la cui rappresentazione è totalmente opposta all’idealizzazione rurale. Il ritratto è piuttosto duro: non cantano quando si recano nei campi, sono uomini che non conoscono il pericolo di firmare un foglio in bianco, che credono alla bugia di dividere l’acqua in ¾ e ¾. Quella di Fontamara è un’umanità dolente, angosciata; sono uomini e donne colpiti nella carne e nello spirito, personaggi sofferenti e schiacciati dai potenti. La loro esistenza è il frutto di un’eredità che arriva dal passato e alla quale apparentemente non si può sfuggire, in una sorta di determinismo e immobilismo sociali («miseria ricevuta dai padri, che l’avevano ereditata dai nonni» e ancora «a Fontamara nulla mutava»)[5]. Ma non si tratta di stupidità; Silone evidenzia come il problema risieda nella mancanza di istruzione («la nostra scarsa istruzione ci impediva di capire come l’acqua potesse essere divisa in due porzioni di tre quarti ciascuno»)[6]. Il vero problema dei cafoni è l’istruzione! Si tratta di istruire le masse, di svegliarne la coscienza, di persuaderle a non accettare rassegnati la schiavitù. I cafoni sono abituati a servire volontariamente. Devono essere persuasi a non ubbidire, a ribellarsi e ad essere uniti. La loro schiavitù è rimarcata anche a livello linguistico; è notevole il divario tra la parlata dei cafoni e quella delle autorità, dei potenti. Il dominio della lingua si trasforma in dominio sull’uomo, sul più debole e non dimentichiamoci che Fontamara si presenta come una traduzione. La maggior parte dei guai dei fontamaresi è rintracciabile nel problema linguistico; non hanno coscienza della retorica dei potenti e sono quindi impossibilitati a percepirne la truffa. Sono vittime dell’incomunicabilità. La questione linguistica è centrale nella configurazione del cafone e del suo asservimento[7]. Un tema molto caro a Silone, dato che vi fa riferimento nell’apertura del Confiteor: «Perché scrivi? – Per comunicare»[8].
E oggi? Chi sono i cafoni? Riusciamo a comunicare? L’esperienza del Covid ha evidenziato che i cafoni esistono ancora, che non devono necessariamente essere identificati con i poveri contadini. La classe degli sbeffeggiati, degli ingannati, di coloro che sono raggirati dall’uso improprio della parola ha cambiato abito, strumento, ma esiste ancora: dalla zappa al telefono. Siamo sotto l’egida dell’infodemia, bombardati dalla «quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento»[9]. Le nuove schiere di cafoni sono le masse social, travolte da valanghe di fake news, ingoiate dalla voragine delle falsità; fandonie alle quali ci si accoda incoscienti e inconsapevoli, incapaci di un’analisi critica che conduca al dubbio, alla verifica delle fonti, a una lettura più profonda. Sono automi ipnotizzati dai like, gonfiati dai followers, che si esprimono per slogan, incapaci di produrre argomentazioni articolate in modo chiaro e coerente … Cafoni sono coloro che si lasciano strappare rassegnati il proprio futuro, i diritti essenziali alla vita – la salute, l’educazione – ; coloro che si arrendono alle proprie paure, sfruttate e trasformate dai potenti nelle cosiddette “reazioni di pancia”; le presunte autorità che su quelle paure costruiscono l’inganno per inghiottirli in un vortice dove la via d’uscita non c’è. Viviamo ancora nell’epoca in cui si crede, come è perfettamente descritto in Le idee che sostengo, che «la principale occupazione delle classi intellettuali [sia]… di scrivere lettere di raccomandazione» e «le famiglie […] compiono [ancora] sacrifici enormi perché un figlio possa studiare […] per farlo entrare a corte»[10]. Come per il cafone siloniano, è ancora una questione di incomunicabilità, di intraducibilità e a tal proposito, pesando soprattutto ai giovani studenti, mi piace proporre una riflessione del poeta spagnolo Pedro Salinas, del saggio La responsabilidad del escritor, che ben si coniuga alla concezione linguistica siloniana:
Non ci sarà un essere umano completo, vale a dire, che si conosca e che si faccia conoscere, senza un grado avanzato di possesso della sua lingua. […] Parlare è comprendere e comprendersi, è costruire sé stessi e costruire il mondo. A mano a mano che si chiarisce questo ragionamento e si avverte questa forza straordinaria del linguaggio nel modellare la nostra stessa persona, nel formarci, si apprezza l’enorme responsabilità di una società umana che lascia l’individuo in uno stato di incultura linguistica. In realtà, l’uomo che non conosce la sua lingua vive poveramente, vive a metà, anche meno. ¿Non ci fa pena, a volte, sentire parlare qualcuno che lotta, invano, per trovare le parole, […], e alla fine ci consegna solo una deforme somiglianza di quello che avrebbe voluto dirci? Questa persona subisce una diminuzione della dignità umana. Esistono molti, moltissimi invalidi della lingua, ci sono molti zoppi, monchi, disabili dell’espressione. Una delle maggiori sofferenze che conosco è quella di trovarsi con un giovane forte, agile, […] padrone del suo corpo, ma che quando arriva il momento di raccontare qualcosa, di spiegare qualcosa, si trasforma improvvisamente in un paralitico spirituale, incapace quasi di muoversi tra i suoi pensieri […] Forse ciò che c’è di più bello nell’anima può esistere senza parole. Ma non arriverà ad assume forma umana completa, ossia di convissuto, consentito, compreso dagli altri[11].
E concludo con la speranza che i novelli Berardo Viola, rappresentanti della possibilità di conquistare una coscienza politica, civile, ma anche linguistica, possano produrre di nuovo la rivoluzione dei fontamaresi, con il passaggio dalla rassegnazione e dalla passività, all’azione, all’altruismo corale, alla volontà di testimoniare e di educare.
Preferisco libri che parlano come uomini. E ciò che è necessario è che le persone imparino a leggere con le orecchie, non con gli occhi. La parola è la vita. La parola è all’inizio. All’inizio era il verbo, e forse alla fine sarà anche il verbo. Cristo, il Cristo, […] non ha lasciato nulla di scritto: tutto il suo operato è stato parola (Miguel de Unamuno)[12].
* [Dalla Tavola Rotonda Telematica, 2 giugno 2020 – Intervento da Pescina dei Marsi – AQ].
[1] Falcetto, Bruno, «Introduzione», in Romanzi e saggi. Volume primo. 1927 – 1944 (ed. a cura di Bruno Falcetto), Mondadori, Milano, 1998, pp. xliii-liv.
[2] Le ipotesi sono varie: dal greco Kakòphōnos, persone che parlano male in una lingua; ma il termine potrebbe provenire dal latino cabònem (da cabo-onis, «cavallo castrato»). Altri studi sostengono che l’etimologia vada rintracciata nel nome del centurione romano Cafo: i cafones furono i suoi seguaci: il termine si sarebbe poi diffuso nell’Italia del sud per indicare persone inurbanas y brutas. Cafone potrebbe derivare dal dialetto campano «c’a fune», letteralmente «con la fune». Il termine allude alla consuetudine dei contadini che si recavano alla fiera portando in spalla delle corde con cui avrebbero poi legato gli animali acquistati; tali condatini erano indicati con l’espressione «quelli co’ ‘a fune»; CASALE, Luigi, Pillole di Cultura, 2002, http://www.liberoricercatore.it/Cultura/pillole/cafone.htm; VINCIGUERRA, Antonio, Sull’origine di cafone (con qualche osservazione e consiglio a proposito delle etimologie in rete), Redazione Consulenza Linguistica Accademia della Crusca, 15 dicembre 2017, http://www.linkiesta.it/it/article/2017/12/16/da-dove-arriva-il-termine-cafone-risponde-lacrusca/36518/.
[3] Silone, Ignazio, Salida de Urgencia (traduzione e prologo di Dionisio Ridruejo), Madrid, Seminarios y Ediciones, 1969.
[4] Silone, Ignazio, Fontamara, in Ignazio Silone. Romanzi e saggi. Volume primo. 1927 – 1944 (ed. a cura di Bruno Falcetto), Mondadori, Milano, 1998,p. 10.
[5] Silone, Ignazio, Fontamara cit., pp. 9, 11. Per la questione del determinismo sociale in Fontamara cf. D’Orlando, Vincent, «Per una lettura gramsciana di Fontamara», in Ignazio Silone o la logica della privazione. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Caen (7 febbraio 2019) – Pescina (23-24 agosto 2019) (a cura di Mario Cimini e Brigitte Poitrenaud-Lamesi), Lanciano, Carabba, 2020, pp. 17-46.[6] Silone, Ignazio, Fontamara cit., p. 62.
[7] Cf. D’Orlando, Vincent, op. cit.
[8] Silone, Ignazio, Quaranta domande a Ignazio Silone, in Romanzi e saggi. Volume primo. 1945 – 1978 (ed. a cura di Bruno Falcetto), Mondadori, Milano, 1999, p. 1211.
[9] Vocabolario Treccani, consultabile online: https://www.treccani.it/vocabolario/infodemia_(Neologismi)/.
[10] Silone, Ignazio, Le idee che sostengo, in Ignazio Silone. Romanzi e saggi. Volume primo. 1927 – 1944 (ed. a cura di Bruno Falcetto), Mondadori, Milano, 1998, pp. 1387-1388.
[11] Salinas, Pedro, La responsabilidad del escritor y otros ensayos, Barcelona, Six Barral, 1961 (la traduzione in italiano è mia).
[12] Unamuno, Miguel de, El poder de la palabra, 1931 (única grabación de la voz de Miguel de Unamuno), disponible online: https://www.ersilias.com/el-poder-de-la-palabra-1931-unica-grabacion-de-la-voz-de-miguel-de-unamuno/ (la traduzione è mia).