Ignazio Silone e l’attualità delle parole-chiave del suo pensiero nel tempo dell’infodemia (Tavola rotonda telematica, 2 giugno 2020)

Giustizia

di Diocleziano Giardini *

Il mio primo pensiero è stato quello di guardare in un dizionario il significato della parola, vedere la sua evoluzione etimologica e nei contesti dell’uso che se ne fa.

giustìzia s. f. [dal lat. iustitia, der. di iustus «giusto»]. – 1. a. Virtù eminentemente sociale che consiste nella volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge.

Quindi quasi un’utopia: chi, di noi, non si è mai posto la domanda se nella propria esistenza ci sia stata Giustizia?

Ognuno nei propri limiti e intendimenti si è scontrato con questa problematica. L’uomo e lo scrittore Silone non ne è stato immune. Tutt’altro. Durante il suo percorso di vita si è continuamente posto il quesito, dando nei suoi scritti, risposte dalle varie sfaccettature.

I personaggi siloniani hanno sete di Giustizia.

– Marietta (in Fontamara)

            “perché queste donne vogliono presentare una supplica al comune.”

            “Vogliamo giustizia” strillò Marietta facendosi innanzi.

            “L’autorità esiste per la giustizia.”

Così Marietta ripeteva le frasi imparate frequentando le autorità nella sua qualità di vedova di Eroe.

– Le donne fontamaresi (in Fontamara)

Dopo molti giri, arrivammo alla fornace. Trovammo una ventina di operai e alcuni carrettieri che caricavano mattoni, i quali interruppero il lavoro e ci accolsero con grida di stupore.

            “Da dove venite? Avete fatto sciopero? Quale sciopero?”

            A tal punto il nostro aspetto doveva sembrare poco rassicurante.

            “Dov’è il vostro padrone?” rispondemmo in varie. “Deve farci giustizia.”

            “Giustizia? Ah, ah, ah” gli operai risposero con una risata.

            “Quanto costa al chilo la giustizia?” ci chiesero.

            “Sentite” ci disse un operaio anziano con voce benevola.

            “Sentite, tornate a Fontamara, col Diavolo non c’è da ragionare.”

 Losurdo (in Fontamara)

            “E quando l’avrai conosciuta”, gli rispose Scarpone “con la verità ci farai il brodo?”

            Era questo il modo di ragionare.

            Losurdo ebbe anche una buona idea: La Giustizia.

            “Ma tu sei pazzo” gli osservò Scarpone “se la giustizia è sempre stata contro di noi!”

            Da noi la “giustizia” ha sempre significato i carabinieri.

Avere a che fare con la giustizia, ha sempre significato avere a che fare con i carabinieri. Cadere in mano alla giustizia, ha sempre significato cadere in mano ai carabinieri.

            “Ma io intendo la vera giustizia” rispose inviperito Losurdo. “La giustizia uguale per tutti.”

            “Quella la troverai in paradiso” decise Scarpone.

            Cosa gli si poteva rispondere?

– Prefazione a Ed Egli si nascose (1944)

            È un’eredità, quella cristiana, pesante di debiti. Un’eredità viva, dolorosa, quasi assurda. nella storia sacra dell’uomo sulla terra purtroppo siamo ancora al Venerdì Santo. Gli “uomini affamati e assetati di giustizia” sono ancora derisi perseguitati uccisi. Lo spirito per salvarsi è costretto ancora a nascondersi.

La rivoluzione della nostra epoca, promossa dai politici ed economisti, prende così le sembianze di un “mistero sacro” in cui la stessa sorte dell’uomo sulla terra è coinvolta. I compiti dell’ordine economico e politico non vengono affatto nascosti o dissimulati; essi restano anzi preliminari. Ma è utile che gli uomini chiamati ad assolverli sappiano di venire da lontano e di andare lontano.

Ignazio Silone

Baden (Svizzera) 15 agosto 1944

– Luca (in Il segreto di Luca)

Evidentemente, osserva Silone, “Luca” interpretava le cantiche dantesche in chiave processuale, un processo in cui Dante giudica la storia universale mettendo persino qualche Papa all’inferno. Così trovava appagamento il bisogno di giustizia di quest’uomo segnato da un processo.

– da Fontamara.

Ero ancora ragazzo quando, una domenica, mentre attraversavo la piazza accompagnato da mia madre, assistei allo stupido e crudele spettacolo d’un signorotto locale che aizzò un suo cagnaccio contro una donnetta, una sarta, che usciva di chiesa. La misera fu gettata a terra, gravemente ferita, i suoi abiti ridotti in stracci. Nel paese l’indignazione fu generale, ma sommessa. Nessuno mai capì come la povera donna concepisse poi l’infelice idea di porgere querela contro l’ignobile signorotto; poiché n’ebbe solo il prevedibile risultato di aggiungere ai danni le beffe della giustizia. Ella fu, devo ripetere, compianta da ognuno e privatamente soccorsa da molti, ma non trovò un solo testimonio disposto a deporre la verità davanti al pretore, né un avvocato per sostenere l’accusa. furono invece puntuali il difensore del signorotto (un avvocato considerato uomo di sinistra) e alcuni testimoni prezzolati che, sotto falso giuramento, diedero una versione del tutto grottesca del fatto, incolpando la donna di avere provocato il cane. Il pretore, in privato una degna e onesta persona, assolve il signorotto e condannò la povera donna alle spese del processo.

“L’ho fatto con mio grande rammarico” così il pretore, alcuni giorni dopo, si scusava in casa nostra. “Parola d’onore, credetemi, mi è assai dispiaciuto. Ma se, come privato cittadino, avendo io stesso assistito al disgustoso fattaccio, non potevo non riprovarlo, come giudice dovevo attenermi alle risultanze processuali; ed esse purtroppo, come sapete, sono state favorevoli al cane.” “Un vero giudice” quell’onesto pretore amava sentenziare “deve saper far tacere i propri sentimenti egoistici, ed essere imparziale.”

“Certo” commentava mia madre “ma che orribile mestiere. Meglio badare ai fatti nostri in casa nostra.” “Figlio mio”, diceva a me “quando sarai grande, fa’ tutto quello che ti pare, ma non il giudice.”

 – Berardo (in Fontamara)

Per Berardo Viola ci vorrebbe moltissimo tempo solo per esporre il suo modo di vedere i soprusi, le angherie e altre vicende personali che lo portano alla sua visione di Giustizia.
Lo voglio sintetizzare con un passaggio di una pagina di Fontamara “tradotta” in dialetto pescinese

…. Berard’ n’n r’spunnett’
“A st’ giornal’ s’ parla d’ Fondamara
s’ parla d’ l’acqua arrubbata
s’ parla d’ Fuc’n’
d’la mort’ d’ ‘n cert’ Teofil’
d’la mort’ d’ ‘na certa Elvira
sol’ ‘n fondamares’ puteva saperl’
parla, cumma si fatt’
a raccundà st’ notiziy
Berard’ n’n r’spunneva
guardeva sol’ i giornal’
p’zeva ai nom’ si stampat’ elloch’ sopra
ai nom’ d’Elvira
i a quella fras’ grossa ch’ diceva
“Viva Berardo Viola”
“Cu sens’ te viv’ mo ch’Elvira e morta?
Cu sens’ te parlà?
S’ parl’ p’ Fondamara
e la fin’
s’ ji mor’
sarà la prima vota ch’ ‘n cafon’
n’n mor’ p’ jiss’
ma p’ jiatr’
d’altrond’ i destin’ mi
eva qui d’ murì ‘ngalera
Berard’ n’n r’spunnett’

(dicembre 1990)

In chiusura, tornando al mio pensiero iniziale sulla parola Giustizia, posso e possiamo affermare che non esiste giustizia per i diseredati, per i cafoni e per i poveri. C’è solo una parvenza di quella che possiamo apostrofare con “GIUSTIZIA DI PARTE”: la giustizia delle false testimonianze, delle raccomandazioni, delle carte false, di chi muore sul lavoro e vive nella povertà trascurato dalla società.
Una società odierna consumistica e globalizzata che ci fa restare in bilico, come persone, tra essere vittime o essere aguzzini; di subire ingiustizie o esercitare abusi e prevaricazioni.
La lettura di testi come Fontamara ci deve aiutare ad essere vigili, ci deve esortare a indignarci per i soprusi che vengono attuati in nome del vivere insieme.
Ribellarsi, ribellarsi: è questa la risposta. Ed è, forse, anche la risposta da dare al “Che fare?” siloniano.

* [Dalla Tavola Rotonda Telematica, 2 giugno 2020 – Intervento da Pescina].