Ignazio Silone e l’attualità delle parole-chiave del suo pensiero nel tempo dell’infodemia

Vorrei citare, in particolare, Edimburgo, perché il mio soggiorno in quella città ha coinciso con il ventennale della morte (1998) e con il centenario della nascita (2000), che mi hanno permesso di organizzare una serie di interessanti incontri internazionali e di presentare, tra l’altro, in occasioni diverse, i due Meridiani siloniani con la partecipazione di Bruno Falcetto e di altri studiosi, italiani e, soprattutto, del mondo anglosassone.

L’ultimo evento l’abbiamo organizzato al Mediamuseum di Pescara, con gli amici Antonio Gasbarrini, Maria Paynter e Angelo De Nicola. Dico questo solo per confermare, qualora ce ne fosse ancora bisogno, l’interesse e la notorietà di cui ancora gode Silone in giro per il mondo.

Silone e la cultura, dunque. Vorrei prendere lo spunto da un altro abruzzese, coetaneo di D’Annunzio, ma di lui assai meno noto. Mi riferisco a Cesare De Lollis, grande filologo romanzo, grande comparatista, studioso di Cristoforo Colombo, autore di saggi fondamentali sui rapporti di certi scrittori nostri con la letteratura francese e spagnola, tra l’altro fondatore e direttore della rivista La Cultura.

Che cosa sosteneva De Lollis? Che non deve essere il grande scrittore, il grande poeta, ad abbassare il proprio tono di voce, il proprio linguaggio, per farsi comprendere da tutti, ma è il popolo che deve innalzare la propria “cultura” per comprendere i grandi autori.

Silone, e non solo quello degli esordi, ha una convinzione esattamente opposta a quella di De Lollis. “A nessuno venga in mente che i Fontamaresi parlino l’italiano. La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l’esperanto […] Quelli di Fontamara credo che siano i primi contadini in carne e ossa che appaiono nella letteratura italiana.”

Questo non vuol dire che Silone non avesse una vasta cultura, almeno pari o superiore a quella di molti scrittori suoi contemporanei e non avesse una visione assolutamente non provinciale, ma, al contrario, spiccatamente internazionale, della cultura del Novecento.

Mi servirò solo di un paio di esempi dalle sue riviste. Come sappiamo, negli anni del suo lungo soggiorno zurighese Silone fondò una vivace rivista in lingua tedesca, Information (1931-1933), alla quale chiamò a collaborare una settantina di intellettuali tra i più noti del momento, non solo letterati.

Proprio nel primo editoriale Silone afferma un concetto fondamentale di cultura e di pensiero, che lo accompagnerà per sempre, e cioè che il pensiero, nella modernità non può essere concepito come separato dalla vita e poiché la vita è “sviluppo, movimento, cambiamento, lotta, contraddizione, evoluzione e al tempo stesso rivoluzione” anche il pensiero non può sottrarsi a tale dinamica. Mi sembra il contrario di ciò che aveva sostenuto, e poi ritrattato, Pirandello, secondo il quale “la vita o la si vive o la si scrive.” Come pure il contrario dell’idea dannunziana che, edonisticamente, concepisce la vita come un’opera d’arte.

La sua idea di cultura viene poi ancora ulteriormente chiarita in Tempo presente, in cui Silone ha un ruolo da comprimario fondatore e direttore con Chiaromonte.

“Con questo intendiamo un’impresa culturale fondata sulla constatazione che il mondo d’oggi non ha più confine. Questo non perché quelli politici ed etici siano aboliti, ma perché sono incerti e problematici […] Tale incertezza non è motivo di scetticismo. È semplicemente il fatto fondamentale del nostro tempo […] Provinciale è oggi chiunque, di fronte a questo fatto, si rinchiude nella sua provincia nazionale, ideologica o religiosa”.

Dunque, culturalmente, un abruzzese europeo, come lo definiva giustamente ValerioVolpini, citando anche Camus, “un abruzzese che parlava a tutta l’Europa”, “era tanto europeo e allo stesso tempo così radicato nella sua tradizione locale.”

“Un uomo – è stato ancora scritto – che cerca, anche culturalmente, la sua verità nella sua identità di uomo europeo”. E infine: “L’Europa in cui egli credeva è la vera Europa, l’Europa fedele alla libertà conquistata attraverso tante sanguinose vicissitudini.”

Nella visione dell’Europa e del mondo di Silone, nella sua idea di cultura, di pensiero e di vita, a 360 gradi – pensiamo alla Scuola dei dittatori, la più ricca di temi siloniani – c’è, come è stato più volte sottolineato, una compresenza di “transitorio” e di “permanenza”, di “storia” e di “eternità”, ma anche,  e soprattutto, di semplicità di linguaggio e di sintesi, di essenzialità, che deve arrivare al cuore del problema, alla sua comprensione, anche quando lo scrittore – e accade spesso – si serve dello strumento simbolico e metaforico. Insomma il compito della cultura, per Silone, non è quello di esibire qualcosa, ma è quello di cercare di capire e far capire, nella forma più semplice ed elementare possibile, ai suoi lettori, il mondo che si agita intorno a noi. E non va affatto dimenticato, in tutto questo, come ha scritto Aldo Garosci, che “la politica è stata la forza ispiratrice di tutta l’opera, scritta e non scritta, letteraria o no, di Silone.”

Se devo considerare uno scrittore, un poeta, così legato al mondo delle origini come Silone eppure così universale, non posso non pensare – tenendo bene a mente, che viene dallo stesso paese di Darina e di James Joyce, (quel Joyce che Silone ha ben conosciuto, insieme a Musil, a Thomas Mann e a Brecht)  – al premio Nobel nordirlandese Seamus Heaney (che fece della Repubblica d’Irlanda la sua Svizzera), il quale,  in Morte di un naturalista, quarant’anni dopo Silone, riconosce grande dignità umana e poetica, al mondo degli umili, e identifica la sua penna che scava tra le parole, con la vanga del padre, che scava nella terra.

Entrambi restituiscono dignità alla fatica dei contadini. Entrambi sono divisi tra “transitorietà” e “permanenza”, tra “storia” ed “eternità”. Solo che l’eternità di Silone, così bene esemplificata nell’Avventura di un povero Cristiano (“Dio ha creato le anime, non le istituzioni”), in Heaney spesso, anzi quasi sempre, ridiventa mito.

E, pensando a Heaney, che amava tanto Dante, mi tornano alla mente dei versi danteschi che assai bene si addicono alla gigantesca figuradi Silone e che lo scrittore conosceva molto bene, avendoli trascritti su un quadernetto sin dalla prima adolescenza e poi memorizzati e mai dimenticati: “Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte.”

* [Dalla Tavola Rotonda Telematica, 2 giugno 2020 – Intervento da Pescara].