Ignazio Silone e l’attualità delle parole-chiave del suo pensiero nel tempo dell’infodemia

(Tavola rotonda telematica, 2 giugno 2020)

La parola essenziale e il silenzio che dice *

di Maria Nicolai Paynter

Ringrazio il sindaco Iulianella ed Ester Cicchetti, la brillante direttrice del Centro Studi, per il gentile invito a partecipare a questa bella riunione virtuale ideata dagli amici Angelo De Nicola e Antonio Gasbarrini per onorare Silone nel dodicesimo decennale della sua nascita.

Bombardati come siamo ora a Manhattan, e non solo, per le notizie contrastanti che vengono trasmesse ventiquattro ore al giorno sul dilagante coronavirus, è opportuno ponderare le manifestazioni e gli effetti della pervadente infodemia. 

Il mio breve intervento s’intitola: LA PAROLA ESSENZIALE E IL SILENZIO CHE DICE

Per cominciare voglio ricordare i versi recitati da Turoldo nel ricevere il Premio Silone a Pescina: «Grazia ad usura, Amico / ora ripaga alte solitudini / e sogni e battaglie; / tu a cercare verità che libera / io che verità sia libera: / oltre ogni Fontamara».

Ma mentre siamo soggetti alle condizioni imposte dalla pandemia, come pensare alla parola essenziale e alla “verità che libera”? Nell’attesa dell’arrivo di una nuova normalità bisogna conservare i valori che ci aiutano a restare uniti nonostante tutto.

Per cominciare, riflettiamo su quanto Silone scriveva sull’impossibilità di comunicare quando la parola viene usata per confondere coloro che si vuole opprimere. Questo è quanto era accaduto a Fontamara nei ben noti episodi della divisione dell’acqua in “tre quarti e tre quarti” e la durata dell’accordo in “dieci lustri”.  Episodi dall’eco manzoniana che la dicono lunga, specie se giustapposti a quanto Magascià chiede alla signorina Petrignani (che fa gli elogi del Duce) per sapere quanto e come effettivamente altri avrebbero pagato per acquistare il nostro Capo.

Altrove Giuvà, il narratore fontamarese più anziano, racconta come, quando era stato in Argentina, aveva visto che i cafoni di varie estrazioni, e perfino un sordomuto, si capivano tra di loro come se fossero stati a Fontamara, ma quando arrivava un cittadino, mandato dal consolato, non riusciva a capire e farsi capire. Era come se i cafoni parlassero ebraico e appartenessero a un’altra razza.

Per Silone “la suprema saggezza del raccontare era cercare di essere semplice”. Luce d’Eramo aveva colto questo aspetto del suo stile osservando: “Silone ha la parsimonia, nell’amministrare le parole, di chi ha visto gli uomini profonderle in imprese catastrofiche e perciò le usa con circospezione, quasi le raccattasse una a una e le strofinasse con la manica prima di deporle sulla carta”. La parola è,così, essenziale, come lo ‘scabro sasso’ turoldiano. È la parola di cui si serve Pietro Spina per spiegare a Infante che due persone che mangiano lo stesso pane diventano cum pane, compagni, e da cum pane viene cum pania, compagnia. Allo stesso modo Infante impara dall’amico la differenza tra Pietro e pietra; Infante e fante; Simone e simonia. Non a caso è Simone-la-Faina che ospita Pietro e Infante nella suo pagliaio, dove i tre vivono in naturale armonia.

Infante non impara soltanto le parole, ma capisce anche come vengono usate dagli oppressori che egli apostrofa come “Pietra!” E si rende anche conto che è possibile capovolgerne il significato aggiungendo soltanto dei punti interrogativi. Così il motto del Duce che incita a Credere, Obbedire e Combattere, diventa di notte, di sua mano: “Credere? Obbedire? Combattere?”

Tali interrogativi non passano per la mente agli oratori pubblici don Marcantonio e don Coriolano, i quali, asserviti completamente al regime nazista, dimostrano la loro ammirazione per il Führer cercando di somigliarli perfino nell’aspetto e predicando le idee assurde della  “mistica statale” con abbondante uso del tedesco. Non sorprende l’assurdità delle loro vedute, neanche quando cercano di convincere mastro Eutimio a modificare la croce. Quando questi gli spiega che le loro richieste non hanno senso, cercano di zittirlo e lo insultano, ancora in tedesco, ma senza ottenere ciò che si prefiggono. I due personaggi non possiedono nulla di autentico o ammirevole, e anzi, fanno perfino ribrezzo.

La parola essenziale, specialmente se affiancata al silenzio, è capace di esprimere i pensieri più veri e più alti. È il silenzio che bisogna ascoltare in tante pagine siloniane. È il silenzio essenziale per apprezzare e capire il profondo significato del segreto di Luca.

Il silenzio riesce a rivendicare ed esprimere la libertà dello spirito. Questo è quanto si legge in varie lettere che Silone scrive a Marcel Fleischmann, a cominciare dal 1937 quando, mentre si trova a Davos con Gabriella, gli dice che vorrebbe passare qualche giorno con lui in un posto tranquillo dove potrebbero trovare libri, e dove, dopo qualche ora, comincerebbero a stare in silenzio: “…questo è per me” egli scrive,  “il più alto livello cui possa arrivare un’amicizia. Finché si chiacchiera, ci si agita, si domanda e si risponde, non si è ancora arrivati al punto più alto…”.

L’importanza del silenzio oltre ad informare le pagine di tanti suoi scritti, è espressa chiaramente nel monologo interiore che Silone compone in francese nel carcere svizzero nel dicembre 1942. Monologo tradotto e pubblicato per la prima volta nel mio ultimo libro. Leggiamo: “Non è poi tanto sorprendente che tu sia in prigione. Ma quattro muri di pietra non sono sufficienti a soffocare la verità. Anche il tuo silenzio ci parla. Il tuo silenzio ci proclama che la libertà impone tanti doveri quanti diritti conferisce. Proclama che la scelta della libertà spirituale implica l’accettazione della persecuzione come estrema e logica conseguenza. Proclama che la libertà spirituale non solo non diminuisce ma si rafforza quando la libertà materiale è sacrificata per difenderla. Proclama che  la libertà non è altro che il supremo bene dell’uomo”.

L’epidemia biologica causata dal virus, non è peggiore di quella cognitiva.  All’imperversante infodemia è quindi possibile e perfino preferibile contrapporre un ragionato silenzio. Ci si chiede: esistono ancora dei mass-media indipendenti oppure essi vengono troppo spesso usati per ulteriori motivi e a scopi politici? Ricordiamo che nella Scuola dei dittatori Tommaso il Cinico gli attribuiva la capacità di “uniformare il modo di sentire degli individui e di distrarli da ogni pensiero autentico”.

Un’indagine della presente situazione, condotta negli ultimi due mesi dal Reuters Institute for the Study of Journalism ha fornito informazioni su sei diversi paesi, ma non ha dato risposte rassicuranti. E alcuni giorni fa la BBC ha lanciato addirittura un grido d’allarme: “Coronavirus: Far right spreads Covid-19 ‘infodemic’ on Facebook”.

Troppi giornalisti, dappertutto, non praticano il fact checking necessario per evitare il propagarsi delle fake news per cui, sia alla TV che, nei social media e negli altri mezzi di comunicazione di massa abbondano opinioni di parte.

Se, nel pubblico in generale,come avverte Tommaso il Cinico, esiste una predisposizione atavica alla soggezione, come riconoscerla e combatterla? Per esempio, come era riuscito D’Annunzio a movimentare le masse al solo grido di tre parole senza alcun significato come “Eia eia alalà”? Per quanti simboli o feticci si è  esposti al sacrificio e perfino alla morte? Quale ruolo si può attribuire alla teoria jungiana dell’inconscio collettivo? Di fronte a tanti stimoli sarà bene contare sulla naturale diffidenza dell’individuo e la propria difesa psicologica per navigare nel mare mosso dell’infodemia e cercare, per quanto possibile, di ristabilire un certo equilibrio.

Vi sono grata per l’ascolto.

* [Dalla Tavola Rotonda Telematica, 2 giugno 2020 – Intervento da New York].