Ignazio Silone e l’attualità delle parole-chiave del suo pensiero nel tempo dell’infodemia

(Tavola rotonda telematica, 2 giugno 2020)

La Verità nella vita e nell’opera letteraria di Ignazio Silone *

di Alberto Vacca

Τί ἐστιν ἀλήθεια;
Che cos’è la verità? (Gv 18, 38)
Ἐγώ εἰμι ἡὁδὸς, καὶἡἀλήθεια, καὶἡ ζωή Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6)

Nel libro «Uscita di sicurezza», tra i tanti episodi narrati da Silone, ve n’è uno che ritengo utile riportare, perché verte sul problema della «verità», che è stato sempre uno dei temi centrali della sua riflessione personale e letteraria:

«Ricordo una vivace discussione sorta un giorno nella classe di catechismo, tra noi ragazzi e il parroco. Ne fu causa una rappresentazione di marionette alla quale noi ragazzi, assieme al parroco, avevamo assistito il giorno prima. Il soggetto, lo ricordo benissimo, esponeva le drammatiche peripezie d’un bambino perseguitato dal diavolo. A un certo punto il bambino-marionetta era apparso sul proscenio tremante di paura e per sfuggire alle ricerche del diavolo si era nascosto sotto un lettino che occupava un angolo della scena. Poco dopo era sopraggiunto il diavolo-marionetta e l’aveva cercato invano.

“Eppure dev’essere qui”, diceva il diavolo-marionetta, “sento il suo odore. Adesso chiedo a questi bravi spettatori”. E rivolto a noi, aveva chiesto:

“Cari miei ragazzi, avete forse visto nascondersi in qualche posto quel bambinaccio che io cerco?”

“No, no, no”, immediatamente gli rispondemmo in coro e con la più grande energia.

“Dove si trova dunque? Perché non lo vedo?”, insisté il diavolo.

“E’ partito, è andato via”, noi gli rispondemmo, “è andato a Lisbona” (nel nostro parlare e nei nostri proverbi, Lisbona è ancora oggi il punto più lontano del globo).

Devo spiegare che nessuno di noi, andando allo spettacolo, prevedeva di essere interpellato da un diavolo-marionetta; e il nostro comportamento era stato pertanto del tutto istintivo e spontaneo. E suppongo che, probabilmente, in qualsiasi altro paese del mondo, davanti all’identico spettacolo, i bambini reagirebbero alla stessa maniera. Ma il nostro curato, una colta e pia persona, con nostra sorpresa, non fu interamente soddisfatto. Ce lo spiegò con rammarico nella piccola cappella di Santa Cecilia ove di solito egli impartiva le lezioni di catechismo.

[…] “Il vostro comportamento durante la rappresentazione delle marionette”, egli ci disse dopo averci imposto di sedere, “mi è dispiaciuto”.

Noi avevamo detto una bugia, egli ci avvertì preoccupato.

L’avevamo detta a fin di bene, certo, ma era pur sempre una bugia. Non bisogna dir bugie.

“Neppure al diavolo?” domandammo noi interdetti.

“Una bugia è sempre un peccato”, ci rispose il curato.

“Anche davanti al pretore?” domandò uno dei ragazzi. Il parroco ci redarguì severamente.

“Io sono qui per insegnarvi la dottrina cristiana e non per fare pettegolezzi” ci disse. “Quello che succede fuori della chiesa non m’interessa”.

E tornò a spiegarci la dottrina sulla verità e sulle bugie, con bellissime e difficili parole. A noi bambini però non interessava, quel giorno, la questione delle bugie in generale; noi volevamo sapere: “Dovevamo rivelare al diavolo il nascondiglio del bambino, sì o no?”.

“Non si tratta di questo”, ci ripeteva il povero curato veramente sulle spine. “La bugia è sempre peccato. Può essere un peccato grande, uno medio, uno così così, e uno piccolino; ma è sempre un peccato”.

“La verità è”, dicevamo noi, “che da una parte c’era il diavolo e dall’altra c’era un bambino. Noi volevamo aiutare il bambino, quest’è la verità”.

“Ma avete detto una bugia”, ripeteva il parroco. “A fin di bene, lo riconosco, ma una bugia”.

Per farla finita io gli mossi un’obiezione d’una perfidia inaudita e, tenuto conto dell’età, piuttosto precoce.

“Se invece d’un bambino qualsiasi si fosse trattato di un prete” gli chiesi “che dovevamo rispondere al diavolo?”

Il parroco arrossì ed evitò una risposta, imponendomi, come punizione per la mia impertinenza, di restare tutto il resto della lezione in ginocchio accanto a lui.

“Sei pentito?” mi chiese alla fine della lezione.

“Certo”, gli risposi. “Se il diavolo mi chiede il vostro indirizzo, glielo darò senz’altro”».

Nel brano riportato si parla di una rappresentazione di marionette, in cui un diavolo-marionetta perseguita un bambino-marionetta, e di una lezione di catechismo, nella quale un parroco insegna ai bambini che bisogna dire sempre la verità e mai le bugie.

Il parroco rimprovera i bambini perché non hanno detto la verità, ma questi gli replicano:

«La verità è che da una parte c’era il diavolo e dall’altra c’era un bambino. Noi volevamo aiutare il bambino, quest’è la verità».

I bambini e il parroco, nella loro conversazione, dimostrano di avere un concetto diverso della verità. I bambini ritengono che sia la coscienza individuale a stabilire che cosa è la verità e la menzogna e, di fronte a un bambino perseguitato, non esitano a schierarsi dalla sua parte per sottrarlo al dominio del suo persecutore. Il parroco, invece, ritiene che la verità debba essere stabilita dall’istituzione, in questo caso ecclesiastica, che l’ha codificata nel catechismo, e che la coscienza individuale debba uniformarsi ad essa anche quando non la condivide.

Il ragionamento del parroco, però, non convince il piccolo Silone che gli obietta, in modo impertinente: «Se invece d’un bambino qualsiasi si fosse trattato di un prete che dovevamo rispondere al diavolo?». L’impertinenza viene punita e, quindi, il piccolo Silone viene vinto, ma non convinto.

Il diavolo-marionetta e il parroco, in questo caso, sono l’incarnazione delle varie istituzioni, sociali e politiche, che coartano la soggettività del singolo individuo per conseguire le proprie finalità di potere, occultando la verità e spacciando per tale la menzogna.

Come è noto, le due principali istituzioni sociali che hanno inciso maggiormente sulla vita di Silone sono state la Chiesa cattolica e il Partito comunista, due diavoli-marionette, dai quali egli, a un certo punto, è scappato per preservare dall’annientamento il dono del bene più prezioso che un uomo possa avere, la libertà di pensiero e, conseguentemente, la capacità di compiere scelte responsabili, dettate dalla propria coscienza e non basate su verità preconfezionate da istituzioni che le elaborano per dominare gli individui a cui le impongono.

Silone subisce il dominio dell’ideologia della Chiesa cattolica dall’età dell’infanzia fino alla fine degli studi liceali, perché il cattolicesimo gli viene inculcato prima dall’ambiente familiare e paesano in cui vive e poi dai docenti ecclesiastici che curano la sua formazione culturale. Fugge dalla Chiesa perché la sua coscienza gli dice che essa non si fa promotrice di giustizia sociale a favore dei ceti popolari, dei cafoni, ma si dimostra connivente con i detentori del potere costituito, avallando e perpetuando le ingiustizie di cui essi sono responsabili. Sebbene conservi sempre nel suo animo un senso di gratitudine verso don Orione, per il bene che gli ha fatto, e il messaggio di fratellanza appreso dalla lettura dei Vangeli, con il passare degli anni Silone si distanzia sempre più dalla Chiesa perché il suo sistema dottrinale e dogmatico gli appare come una pura ideologia totalizzante, a cui non può sacrificare la propria coscienza individuale, la propria autonomia intellettuale.

Al partito comunista Silone dedica gli anni della sua giovinezza, compresi tra il 1921 e il 1930. Vi aderisce con entusiasmo perché vede in esso lo strumento attraverso il quale poter realizzare l’ideale di giustizia sociale che lo anima. In nome dell’ideale comunista, che ritiene realizzato in Russia dopo la rivoluzione dell’ottobre 1917, combatte il fascismo che si afferma in Italia nell’ottobre 1922. Spera in una rivoluzione che realizzi la giustizia, ma che non calpesti la libertà. Il suo sogno però si infrange quando scopre che in Russia, con l’affermazione dello stalinismo, la rivoluzione non solo non ha realizzato la giustizia, ma ha eliminato anche le libertà individuali, dando vita a uno stato totalitario simile a quello fascista. Anche in questo caso, per salvare la propria coscienza, non resta altro che la fuga.

Le due uscite di sicurezza di Silone, dal cattolicesimo e dal comunismo ufficiali, sono state determinate dal convincimento del primato della coscienza, e quindi della libertà individuale, rispetto a qualsiasi ideologia, religiosa o politica, che voglia imbrigliarla ed eliminarla. E per Silone, come egli scrive in «Uscita di sicurezza», «la libertà è la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possibilità di cercare, di esperimentare, di dire di no a una qualsiasi autorità, letteraria artistica filosofica religiosa sociale e anche politica».

La Chiesa e il Partito sono stati da lui abbandonati perché, dopo avere smarrito i valori originari a cui si erano ispirati, si sono trasformati, ognuno nel suo ambito, in un diavolo-marionetta, cioè in una entità priva di anima e di autenticità, che vuole ridurre allo stato di bambino-marionetta, cioè di essere non pensante e di automa, ogni persona su cui esercita la propria autorità.

A partire dagli anni Trenta, Silone dedicherà il resto della sua vita a indagare, a livello letterario, il perenne contrasto che esiste tra la verità della coscienza individuale e la menzogna istituzionale che vuole soffocarla e alla quale essa pervicacemente resiste, rivendicando la supremazia della prima sulla seconda.

Emblematica al riguardo, con riferimento all’istituzione politica dello Stato, è l’opera «La scuola dei dittatori», in cui Tommaso il cinico, alter ego di Silone, rivela il sistema menzognero su cui si fondano tutti i totalitarismi (fascismo, nazismo, comunismo), utilizzando il metodo dell’analisi razionale, l’unico che possa condurre alla scoperta della verità. Dice, infatti, Silone di Tommaso: «Egli ama molto discutere ed essere contraddetto. Anche per questo preferisce la lettura dei libri e dei giornali degli avversari a quelli dei propri amici. Quando egli non ha altri con cui dibattere, è stato osservato discutere con sé stesso».

Per quanto concerne la Chiesa, emblematica è l’opera «L’avventura di un povero cristiano», in cui Celestino V, altro alter ego di Silone, dopo essere stato eletto papa, si dimette dalla carica perché non vuole essere il capo e la guida di un’istituzione che ha rinunciato agli autentici valori del Vangelo per sostituirli con il surrogato del potere temporale. Nel dialogo con Bonifacio VIII, che è stato eletto papa dopo la sua rinuncia, Celestino spiega le ragioni delle sue dimissioni in questi termini:

«La potenza non mi attira, la trovo anzi essenzialmente cattiva. Il comandamento cristiano che riassume tutti gli altri, è l’amore. Durante questi ultimi mesi, mentre me ne stavo nascosto per sfuggire alle ricerche della vostra polizia, sono diventato più cosciente di quanto non lo fossi nel passato, che la radice di tutti i mali, per la Chiesa, è nella tentazione del potere.

[…] Cerchiamo dunque, se non di convincerci, almeno di capirci. Quando parliamo della realtà di cui bisogna tener conto, voi vi riferite alle istituzioni e al potere, io alle anime. Vi prego di correggermi, se mi sbaglio.

[… ] Dio ha creato le anime, non le istituzioni. Le anime sono immortali, non le istituzioni, non i regni, non gli eserciti, non le chiese, non le nazioni».

Ecco, nella concezione di Bonifacio VIII, la preminenza, nel rapporto tra l’istituzione e l’individuo, spetta alla prima; nella concezione di Celestino, invece, al secondo. La posizione di Celestino è anche la posizione di Silone che, dopo le due uscite di sicurezza, ha posto sempre al centro del proprio pensiero come valore fondamentale delle relazioni sociali la persona umana e la capacità che essa ha, con il lume della propria ragione, di distinguere la verità dalla menzogna, il bene dal male.

Nel suo testamento Silone ribadisce, per l’ultima volta, di dovere molto a Cristo, che lo ha sostenuto nel corso della sua vita. Egli era una attento lettore dei Vangeli e senz’altro non gli sarà sfuggito il modo con cui l’evangelista Giovanni prospetta il tema della verità. Prima della sua crocifissione, Pilato chiede a Gesù: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). Gesù, però, non gli risponde, perché la risposta l’aveva già data in segreto ai suoi discepoli, ai quali aveva rivelato: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Nella prospettiva giovannea il Cristo è la luce del mondo, il λόγος (lògos) incarnato che guida l’uomo sulla via della salvezza; in una prospettiva laica può dirsi che il λόγος altro non è se non la razionalità, che si incarna in ogni uomo all’atto della sua nascita. Ed è questa razionalità che può rischiarare il suo cammino nella vita, liberandolo dalla luce tenebrosa che proiettano su di esso le istituzioni menzognere che vogliono oscurare la sua coscienza.

Penso sia questo il debito più grande di Silone, ed anche nostro, verso il Cristo: l’avere indicato nella coscienza umana la sorgente della verità, che va ricercata con una lunga e faticosa ricerca personale.

* [Dalla Tavola Rotonda Telematica, 2 giugno 2020 – Intervento da Roma].