Il Messaggero Abruzzo (23 agosto 2016)
di Antonio Gasbarrini
Lunedì 22 agosto 2016: un inusuale vertice europeo a tre, sulla nave Garibaldi ed in mare aperto in prossimità delle isole pontine, vedrà la partecipazione di Matteo Renzi, Francois Hollande e Angela Merkel e. Al centro dell’incontro trilaterale il recupero, anche simbolico, di quella smarrita “Europa dei valori” che proprio nella dirimpettaia isola di Ventotene vide nel 1941 la nascita dell’avveniristico testo Per un’Europa libera e unita. Progetto di manifesto, meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene. Redatto dagli antifascisti confinati Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, con la successiva adesione di Eugenio Colorni. Salvo variazioni dell’ultima ora imposte da ragioni di sicurezza, i partecipanti al summit raggiungeranno con un elicottero l’isola, per rendere Omaggio alla tomba di Altiero Spinelli, tra i più legittimati e riconosciuti Padri Fondatori dell’Europa di Schengen che abbiamo conosciuto fino ad un paio d’anni fa.
Una fortuita coincidenza ha voluto che nello stesso giorno del 22 agosto cadrà la ricorrenza della scomparsa dello scrittore Ignazio Silone, avvenuta nel 1978 alla Clinique Generale di Ginevra, dove era ricoverato da qualche mese a causa di una grave malattia renale e polmonare, con ripercussioni cerebrali. Nel romanzo postumo di Severina curato dalla moglie Darina Laracy ed uscito tre anni dopo per i tipi Mondadori, viene ricordato come le ultime parole pronunciate in lingua francese prima di entrare in coma durato qualche giorno, siano state: «Maintenant c’est fini. Tout est fini. Je meurs». [«Adesso è finita. Tutto è finito. Muoio»].
Per chi non conosce la straordinaria vita del giovane rivoluzionario comunista Secondino Tranquilli (alias Silone) negli anni Venti ed il suo successivo esilio svizzero d’impronta socialista durato fino al 1944, potrà sembrare abbastanza singolare che nel momento di congedarsi per sempre, non si sia espresso con la madrelingua. Il fatto è che nelle sue continue peregrinazioni tra uno Stato Europeo e l’altro per diffondere in clandestinità il Verbo marxista, abbia dovuto imparare più di una lingua (francese, tedesco e spagnolo, in particolare).
Ma, più di tutto, di fronte alla catastrofe nazi-fascista, fu quasi naturale pensare e scrivere alla grande, sia come romanziere che come saggista, in quella ospitale terra federata Svizzera, pacifista ad oltranza.
La rivisitazione e la riscoperta di Giuseppe Mazzini, tratteggiata nell’ancora attualissimo saggio Nuovo incontro con Giuseppe Mazzini. Pensieri su alcune difficoltà della nostra epoca (1939), può ben essere considerato l’incipit di quel suo utopico “Umanismo socialista” cementato dall’auspicata federazione degli Stati europei, come ben può leggersi in questo suo passo: «Mentre il nazionalismo che delizia i nostri giorni è esclusivista, sciovinista, xenofobo, antisemita, imperialista, esaltatore del “sacro egoismo”, in una parola, reazionario; l’idea nazionale del Mazzini era tollerante, conciliatrice, umanitaria, cosmopolita».
Ma, sarà durante la sua direzione del Centro Estero del Partito Socialista Italiano (Zurigo, 1941-1944) che la “declinazione europeista siloniana” troverà una sua prima sistemazione ideologica e pragmatica enunciata in vari scritti usciti fino agli inizi degli anni Sessanta (a cominciare dal fondante Manifesto del Terzo Fronte e dagli altri numerosi interventi in merito apparsi su L’Avvenire dei Lavoratori da lui diretto in quegli stessi anni).
Per ripercorrere i numerosi incroci esistenziali che hanno consentito ai Silone, Spinelli, Rossi e Colorni («Di quelle molteplici voci, assai recenti nel tempo – e che tuttavia suonano affievolite come se decenni ci separassero da esse – io voglio ora ricordarne particolarmente una: quella di Eugenio Colorni ucciso dai nazifascisti qui a Roma, pochi giorni prima della liberazione, mentre si recava in una tipografia clandestina in cui si stampava l’«Avanti!», di cui egli era redattore») di gettare a piene mani i semi fondanti d’una Federazione Europea più progressista e meno finanziaria di quella che realmente abbiamo sino ad oggi conosciuta, ci è sembrato utile riproporre il discorso tenuto dallo scrittore abruzzese al Teatro Eliseo di Roma nell’ottobre 1947 (subito dopo pubblicato nel volume Europa Federata con l’introduzione di Ernesto Rossi).
Con il sotteso augurio che i suoi numerosissimi “scritti sparsi” dedicati all’argomento, conosciuti solo in minima parte anche agli addetti ai lavori, siano riportati alla piena luce del giorno in un’apposita pubblicazione.
MISSIONE EUROPEA DEL SOCIALISMO [1947] *
di Ignazio Silone
Per misurare il regresso da noi subito – se non altro nell’impostazione dei problemi – in questi soli due anni trascorsi dalla fine della guerra, basti ricordare il fervore quasi unanime che allora suscitava nei movimenti di resistenza dei vari Paesi l’idea di una non lontana unificazione politica dell’Europa. L’idea della Federazione europea, certo, era tutt’altro che nuova, ma, per la prima volta, essa svegliava in noi un’emozione che simili formule politiche di per sé non danno se non quando stanno per realizzarsi.
Nell’estate del 1941 avemmo sentore di un manifesto elaborato da un gruppo di confinati politici nell’isola di Ventotene. Poco più tardi ricevemmo un appello analogo dal Movimento «Libérer et Fédérer» di Tolosa, nel quale militava anche il nostro caro ed indimenticabile Silvio Trentin. Più tardi conoscemmo appelli e testi analoghi che provenivano dai gruppi francesi di «Combat», di «Franc-Tireur» e di «Liberté», dal Movimento del lavoro libero in Norvegia, dal Movimento Vrij Nederland in Olanda e anche da sparsi gruppi di tedeschi antinazisti, alcuni dei quali pagarono con la vita la loro avversione alla tirannia.
A questi gruppi di combattenti clandestini diedero un’espressione universale personalità conosciute come Albert Camus, Jacques Maritain, Thomas Mann ed altri. E più tardi, ma prima ancora della fine della guerra, l’uno dopo l’altro i partiti politici in via di riorganizzazione, i socialisti, i cattolici, i democratici radicali, i liberali, presero anch’essi posizione favorevole ad una rivendicazione immediata dell’unità europea.
Di quelle molteplici voci, assai recenti nel tempo – e che tuttavia suonano affievolite come se decenni ci separassero da esse – io voglio ora ricordarne particolarmente una: quella di Eugenio Colorni ucciso dai nazifascisti qui a Roma, pochi giorni prima della liberazione, mentre si recava in una tipografia clandestina in cui si stampava l’«Avanti!», di cui egli era redattore.
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Certamente è utile per tutti noi evocare questi nomi: essi aggiungono gravità ed elevatezza al nostro incontro di oggi. La testimonianza di Colorni ha d’altronde un valore più che individuale, perché nell’inverno 1944 egli redasse una dichiarazione, con la quale l’intero socialismo italiano si dichiarò federalista. Vale la pena di ricordarne alcune affermazioni, per gli immemori.
«I socialisti italiani – scrisse dunque Colorni – vogliono che dalla pace che seguirà alla presente guerra siano poste le basi solide di un ordinamento che tenda a creare una Federazione libera degli Stati Europei».
E dopo aver spiegato, in termini analoghi a quelli qui esposti poco fa, dall’amico Calamandrei, che cosa fosse da intendersi per federazione di liberi Stati Europei, egli aggiungeva: «I socialisti italiani ritengono che questa prospettiva _ che poteva sembrare un lontano ideale ancora pochi anni fa _ si troverà nel periodo che seguirà la presente guerra molto prossima alla sua realizzazione e sono convinti che tale meta è strettamente collegata ai fini che essi si propongono in quanto socialisti, giacché la formazione di un’unità federale europea sarà evento di tale portata rivoluzionaria, da non poter avvenire se non con l’attivo concorso delle masse e nell’ambito di un profondo e generale rinnovamento sociale del nostro Continente. Per l’Italia, come per tutti i popoli che usciranno vinti da questa guerra, una tale soluzione costituirebbe, tra l’altro, l’unico modo di evitare la sconfitta, la mutilazione territoriale, lo aggiogamento economico. Il Partito Socialista Italiano ritiene che proprio l’atteggiamento delle masse possa avere un’azione decisiva a questo proposito, creando situazioni di fatto di cui i vincitori non potranno non tener conto, provocando episodi e contribuendo a far precipitare la situazione internazionale, nel senso dell’unità europea».
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A rileggere oggi queste parole suggerite da Eugenio Colorni al socialismo italiano sembra di ricordare un sogno di un’alba di primavera. Sono parole scritte appena tre anni fa; ma, confrontate con le nostre attuali condizioni, esse ci sembrano assai più remote.
La loro rievocazione deve pertanto servire a stabilire le dimensioni del nostro distacco dagli ideali e dai propositi del tempo della liberazione. Sembra quasi che stia per avverarsi una scherzosa profezia di un alto prelato romano, che alcuni di voi forse già conoscono. Dopo la marcia su Roma delle camicie nere, il Cardinale Gasparri, allora Segretario di Stato, ricevette uno scrittore americano, il quale gli chiese quanto tempo, a suo giudizio, potesse durare il nuovo regime. E il Cardinale, con la prudenza propria di tutti i profeti, rispose: «Potrà durare due anni, ma potrà durare anche due secoli». Ma la curiosità dello scrittore americano non fu soddisfatta; egli insisté: «E dopo due anni, o dopo due secoli, chi succederà a Mussolini?». «Ah! in ogni caso, Giolitti», rispose il Cardinale senza esitazione.
Sono molti i quali accettano come definitivo l’avveramento di quella previsione: altri invece discutono se l’attuale regime non sia piuttosto da paragonare a quello di Depretis. Ad ogni modo, la risposta scherzosa del prelato non era fondata soltanto sull’antico scetticismo cattolico verso la capacità democratica degli italiani; ma anche sulla esperienza che dopo le guerre e le guerre civili una stanchezza e apatia fatale minacciano di impadronirsi dell’opinione pubblica.
Vi è oggi nel nostro Paese un diffuso disorientamento, un tono di vita assai depresso, uno sterile accanirsi su questioni secondarie o fittizie. Corre un abisso tra i problemi veri ed essenziali del benessere e dell’incivilimento e le preoccupazioni quotidiane della maggior parte dei dirigenti della nostra pubblica opinione.
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In queste nostre penose condizioni, parlare di nuovo agli italiani dell’unità europea equivale a porre un problema essenziale, un problema vero, autentico, fondamentale, distogliere un momento la loro attenzione dall’accanirsi in lotte deleterie per fini astratti o fittizi. E porre di nuovo con estrema energia questo problema equivale anche ad un richiamo ai sopravvissuti della Resistenza, ai delusi, agli assenti, e rivolgere ad essi e a noi una questione grave, la più grave per la coscienza di un uomo: «Al punto in cui siamo e considerata la piega che prendono le cose del nostro Paese e nei Paesi vicini, che uso vogliamo fare della nostra vita?».
Questo di oggi è il contrario, insomma, di un invito a rifugiarsi nel sogno e nell’astrazione, e non è la parola d’ordine settaria di un partito. Una ripresa della lotta per l’unità europea è una necessità di vita dei Paesi liberi del vecchio Continente; è la sola via della loro salvezza.
Alcune melanconiche constatazioni dianzi esposte non mettono in dubbio, si capisce, la buona volontà dei protagonisti. La gravità della situazione, infatti, è ammessa da tutti; universale è l’apprensione per la fragilità di questa pace. Vi è perfino attualmente una gara tra i partiti a chi si dichiari più pacifista degli altri. Ma, non dobbiamo nascondercelo, è ancora un pacifismo indeterminato, non alieno dalle tradizionali debolezze del vecchio inconcludente pacifismo. Che significa praticamente una lotta per la pace se non è una sincera buona volontà di tutti i giorni per risolvere i contrasti dai quali può scaturire la guerra? Non esiste una lotta particolare contro la guerra, separata da una giusta e coraggiosa politica generale.
Sarebbe ozioso, io penso, attardarsi ora ad una nuova critica del vecchio pacifismo e delle sue insufficienze, ozioso ricadere nella disputa sulla sua premessa dottrinaria, inaccettabile a quanti sentono che vi sono valori la cui difesa può giustificare il sacrificio volontario. Ma in un senso più strettamente politico, è doveroso almeno ribadire che il pacifismo non soddisfa nessuno il quale voglia realmente allontanare il pericolo di nuove guerre, perché nelle sue astratte formulazioni si ritrova bensì l’immagine seducente di un’umanità affratellata, però non l’indicazione precisa e concreta delle vie, dei mezzi, delle forze che a quella possono condurre, né l’indicazione degli ostacoli da abbattere. La divisa dei veri pacifisti, pertanto, non può essere che questa: «se vuoi la pace, prepara le condizioni della pace»; le condizioni politiche, economiche, sociali.
Ora a questo riguardo è particolarmente grave e doloroso di dover constatare che si trovano al di fuori e lontane da una via realistica di una concreta lotta per la pace anche quelle forze che sarebbero da supporre in essa le più interessate: alludiamo alle organizzazioni del movimento operaio e ai partiti socialisti.
La storia è stata generosa col socialismo. Dopo il fallimento del 1919-23 essa gli ha offerto un’occasione di rivincita. Ma non sembra ch’esso intenda trarne profitto. L’attuale smarrimento ed inefficienza del socialismo sul piano europeo non è da spiegare forse unicamente o prevalentemente con la deficienza degli uomini. Il fatto è che il socialismo si è trovato nella nostra epoca coinvolto in una trasformazione dello Stato e della vita politica, che ne ha enormemente accresciuto le possibilità materiali, privandolo, però, di alcuni suoi requisiti più positivi. Noi abbiamo assistito ad un lungo processo, durato decenni, che si può chiamare la socializzazione dello Stato; il suo corrispettivo è stato però la nazionalizzazione del socialismo (e dico nazionalizzazione quasi nel senso tecnico che la stessa parola ha nelle espressioni analoghe di nazionalizzazione del carbone o dei trasporti).
Non ho bisogno di dilungarmi per ricordarvi come e perché ciò sia avvenuto. La crisi mette in pericolo il profitto dei capitalisti, il salario degli operai e la rendita degli agricoltori. L’esigenza di una sicurezza economica e sociale viene perciò avanzata da tutti i ceti senza distinzione e si rivolge oggi unanimemente allo Stato. E questo ha prodotto negli ultimi anni risultati assai gravi. Uno di essi è che ovunque hanno avuto luogo riforme di struttura, esse sono state operate nei limiti nazionali, con carattere nazionale, e con la tendenza a rafforzare il legame di tutti i ceti ai particolari interessi nazionali. Un altro risultato è che lo Stato nazionale non è più considerato dal popolo uno strumento di oppressione, un ostacolo allo sviluppo sociale, uno strumento da riformare o da distruggere, o le cui prerogative debbano essere limitate a profitto d’istituzioni sociali, sebbene come il solo garante e responsabile di ogni sicurezza, a cui bisogna lasciare ogni potere. Ma poiché la crisi economica non ha cause e limiti nazionali, i rimedi nazionali non fanno che aggravarla e ogni serio contrasto economico turba i rapporti tra gli Stati.
Lo Stato nazionale, questo anacronismo del XX secolo, ha ricevuto, dunque, poteri inauditi proprio nell’epoca storica che doveva assistere al suo assorbimento in formazioni politiche più vaste. Il suo potere è mostruoso. La ripartizione del profitto economico non dipende più, come voi sapete, dal contributo che gl’individui e i ceti danno alla produzione, ma dalle leggi dello Stato. Cosicché, se una volta poteva apparire a molti che una via sicura per arrivare ad avere autorità fosse la ricchezza, oggi è palese a tutti che per arrivare alla ricchezza la via più breve e sicura è quella del potere. D’altro canto le stesse categorie lavoratrici vengono compensate non per la qualità o le fatiche che richiede la prestazione della loro opera, ma in misura dell’influenza politica che esse esercitano sui poteri statali.
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Quanto più, dunque, aumenta l’importanza della condizione nazionale per l’esistenza materiale dei singoli e delle classi, tanto più nella coscienza dei singoli e delle classi aumentano d’importanza le differenze nazionali stesse, fino ad arrivare ad una totale identificazione. Questa identificazione nella nostra epoca si è chiamata «nazional-socialismo»; essa resta tale, resta degna di questo nome famigerato, anche se lo stesso concetto è inconsapevolmente accettato e ripetuto da socialisti sedicenti marxisti.
In altri Paesi, come voi sapete, questo fenomeno è ancor più evidente che nel nostro: il socialismo si è lasciato facilmente annettere allo Stato nazionale, che ne ha avuto bisogno per le sue nuove funzioni nei rapporti con le masse. Così il socialismo, anche in questo dopoguerra, o almeno nei primi anni successivi alla guerra, è mancato nuovamente alla sua funzione storica ed è caduto vittima delle soluzioni meramente nazionali.
Nei Paesi europei dove si è molto nazionalizzato, è ora diffuso il riconoscimento che sia grave errore di assimilare il socialismo con la nazionalizzazione, benché questa, in certi casi, naturalmente, sia utile e non da escludere.
È un fatto però che le nazionalizzazioni in alcuni casi si sono rivelate altrettanto antieconomiche e parassitarie delle precedenti imprese private. È stata misura necessaria e indilazionabile la nazionalizzazione del carbone inglese; ma non è certo un progresso parlare di carbone francese, di carbone belga, di carbone olandese, di carbone tedesco ed affidarne la gestione agli impiegati di Stati rivali. Non è un progresso, ripeto, in nessun senso, perché ciò non corrisponde né ad un dato naturale, né ad una necessità tecnica, né ad un vantaggio sociale. Sono sopraffazioni egoistiche a danno dell’interesse generale.
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Malgrado questi errori, malgrado che il socialismo attualmente si dibatta nei vicoli ciechi della politica nazionale, tuttavia è su di esso, è sulle sue riserve, sulle sue possibilità ancora inespresse che bisogna principalmente contare nell’inventario delle forze motrici per la ricostruzione e l’unificazione del nostro Continente. La nostra fiducia è giustificata perché la vera forza, la forza inesauribile del socialismo, non è nella psicologia, sovente assai mediocre, dei suoi dirigenti, ma nella condizione proletaria in seno alla società moderna. E se il socialismo, malgrado tutti i suoi disastri, malgrado la sua decennale sparizione forzata dalla scena della politica, è tornato ad essere il fattore principale della vita politica di vari paesi, è appunto per questo: la sua vitalità è legata a qualche cosa di permanente e di indistruggibile della società moderna. La forza proletaria, la condizione proletaria nella società moderna, resta pertanto la leva decisiva di ogni rinnovamento politico e sociale. Se essa viene a mancare, c’è poco da sperare.
Presentare oggi come necessaria ed urgente una lotta per un’impostazione europea dei nostri problemi fondamentali, equivale dunque, in primo luogo, a rivolgere un appello al socialismo, equivale a richiamare il socialismo alla sua storia, alla sua natura, alla sua vera missione, ad ammonire il socialismo a non vendere i diritti della sua primogenitura per una scodella di lenticchie.
La funzione internazionale del movimento socialista è oggi una immediata ed urgente necessità europea.
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La vera questione non è oggi se i popoli europei debbano migliorare la propria sorte mettendosi assieme, oppure se debbano conservare la propria attuale sovranità. La questione è se essi debbano cercare di sopravvivere, mettendosi assieme, oppure uno dopo l’altro, ognuno a modo suo, sparire. E questo vuol dire che essi perderanno ugualmente la propria sovranità, chi in un modo e chi in un altro; ma non volontariamente, con l’adesione ad una formazione statale superiore in cui entrerebbero su un piede di uguaglianza, ma decadendo inevitabilmente nella condizione umiliante dei protettorati e delle colonie. In molti Paesi, come voi sapete, questo è già avvenuto, e l’assoluta sovranità statale, alla quale non si vuole rinunciare, vi è mera apparenza.
Nella valutazione dei partiti politici vi saranno dunque molti giudizi da rivedere, appena saranno saggiati alla pietra di paragone di concrete iniziative per l’unità europea o per la federazione di gruppi di popoli europei. Le attuali designazioni di «destra» e di «sinistra» appariranno allora etichette arbitrarie.
Questo concetto io l’ho ritrovato espresso con grande chiarezza in un manifesto del gruppo di Ventotene, al quale ho già fatto allusione. «La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari – venne detto in quel manifesto – cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo e risorgere le vecchie rivalità, e quelli che, invece, vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale e indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, l’adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».
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In questa manifestazione iniziale è forse anche necessario confutare brevemente alcune obiezioni preliminari. Una di esse, la più ovvia, è che bisognerebbe rinviare le grandi riforme politiche a tempi migliori. Gli uomini, ci si dice, hanno ora bisogni più urgenti: il nutrimento, la casa, il vestiario. E questo è un argomento illusorio, perché i grandi mutamenti della storia sono stati sempre compiuti in mezzo ai disastri, sono stati sempre opera di uomini affamati, di uomini senza, casa, di uomini senza scarpe; nessun grande avvenimento storico è stato opera di un popolo felice, d’un popolo soddisfatto, contento di se stesso.
Un’altra obiezione viene talvolta da persone intimamente persuase della necessità di un superamento delle anacronistiche sovranità nazionali, ma le quali temono i mutamenti di qualsiasi specie, per paura di un peggio non troppo ben definito. Tra questi timidi sono anche da annoverare gli intellettuali e le persone di cultura, che temono per la sorte dei cosiddetti valori spirituali. Ad essi bisogna anzitutto ricordare le parole di Proudhon: «Il solo mezzo di evitare una rivoluzione è di farla». Il solo mezzo di evitare le false soluzioni, le soluzioni violente, le soluzioni estreme, è di soddisfare gli stessi bisogni da cui quelle scaturiscono, e di soddisfarli con soluzioni giuste, con soluzioni migliori.
Dipende dall’unità e dall’indipendenza del continente europeo se la rivoluzione della nostra epoca _ oltre alle forme già note e temute della tecnocrazia e del collettivismo burocratico _ ne conoscerà anche una in cui le necessità del benessere collettivo siano armonizzate con i valori culturali del passato, con i valori tutt’altro che superati, o superabili, della Grecia, del Cristianesimo e della rivoluzione liberale.
Nella misura in cui ai popoli di Europa riuscirà di superare gli egoismi nazionali per una ricostruzione più economica, più razionale del continente, nella misura in cui ad essi riuscirà di salvaguardare la democrazia e la libertà politica, pur nella adozione di forme assai spinte di economia pubblica, essi creeranno un modello esemplare per tutti gli altri popoli della terra, essi affermeranno un primato, che non sarà di tipo militare o materiale, ma un primato di civiltà, secondo la tradizione europea, che è quella di adattare incessantemente alla misura dell’uomo e della sua dignità le condizioni esteriori dell’esistenza.
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Servendo la causa dell’unità europea, noi sappiamo, perciò, di rendere un servizio anche ai popoli degli altri continenti: fare una politica su scala europea, significa per noi fare una politica mondiale.
Noi ci troviamo ora in una situazione tragica che mi ricorda talvolta quella dei minatori di un bellissimo film tedesco dell’altro dopoguerra: «Kameradschaft». Vi sono in Renania vaste zone carbonifere che si estendono, senza soluzione di continuità, al di qua e al di là della frontiera; i segni della separazione degli Stati sono posti non soltanto alla superficie della terra e sulle vie di traffico, ma anche – per mezzo di robuste inferriate – nelle stesse gallerie sotterranee di scavo. Un giorno, dunque, avvenne in una galleria, un terribile – scoppio di grisou: l’incendio si propagò nei vari cunicoli, immobilizzò gli ascensori, rese impossibili e pericolosi i tentativi di soccorso dall’esterno. Allora, non senza pericolo per sé, i minatori «stranieri» delle gallerie adiacenti, senza chiedere permesso ad alcun commissario di polizia, si scagliarono contro le inferriate che separavano la frontiera sotterranea, la scardinarono e salvarono dall’asfissia i loro compagni.
Noi siamo minacciati dalla stessa morte, se non abbattiamo la cortina di ferro della miseria e delle sovranità nazionali.
Per finire, ho da dirvi solo questo: se non faremo l’Europa, la nostra generazione potrà considerarsi fallita.
* Testo integrale del discorso tenuto nell’ottobre 1947 al Teatro Eliseo di Roma, subito dopo confluito nel volume Europa Federata con l’introduzione di Ernesto Rossi.